L'importo attribuito al collaboratore dell'impresa familiare a titolo di liquidazione del diritto di partecipazione non è assoggettato a Irpef, non rileva come componente negativo e non è deducibile dal reddito d'impresa.
E' quanto precisato dalla Corte di cassazione nel testo dell'ordinanza n. 40937 del 21 dicembre 2021.
Secondo gli Ermellini, infatti, la liquidazione del diritto di partecipazione all'impresa familiare non è riconducibile a nessuna delle categorie reddituali previste dal TUIR.
Essa riguarda la sfera personale dei soggetti del rapporto in questione, atteso che non esiste alcun contratto sociale e non sussiste un vincolo societario tra titolare dell'impresa e i suoi collaboratori.
Ne consegue che:
Come confermato dalla stessa Agenzia delle Entrate, infatti, il diritto di credito spettante ai collaboratori dell'impresa familiare ha valenza meramente interna, senza conseguenze fiscali.
Nel caso specificamente esaminato, la Suprema corte ha ribaltato una decisione con cui i giudici di merito avevano riconosciuto la deducibilità della somma liquidata da un'impresa familiare ad un collaboratore al momento della cessazione del rapporto, assumendo che il recupero a tassazione della somma iscritta a ruolo realizzasse violazione del principio del divieto di doppia imposizione.
Secondo gli Ermellini, la Corte territoriale era incorsa nel denunciato vizio di violazione e falsa applicazione dell'art. 109, comma 5, del DPR n. 917/1986.
Il Collegio di legittimità, richiamando la disciplina relativa al trattamento fiscale dell'impresa familiare, ha sottolineato che per questa tipologia di impresa non si discute di reddito prodotto in forma associata.
I familiari che prestano attività lavorativa nell'impresa, infatti, sono meri collaboratori privi di contitolarità, per cui i compensi a essi spettanti vanno qualificati come redditi di puro lavoro.
Poiché, dunque, sussiste una separazione netta fra il reddito dell'imprenditore e quello dei suoi familiari/collaboratori - tanto che le perdite d'impresa sono ripartite ma solo ad esclusivo carico dell'imprenditore medesimo - i redditi imputati ai familiari, in proporzione alle rispettive quote di partecipazione, non rappresentano costi nella determinazione del reddito dell'impresa familiare, bensì una ripartizione dell'utile dell'impresa stessa.
In questo modo, va escluso che nella contabilità dell'imprenditore titolare dell'impresa familiare possa essere iscritto il costo del lavoro del collaboratore che viene remunerato come quota di utile che diminuisce il reddito del titolare in dichiarazione dei redditi.
L'impresa familiare - ha continuato la Corte - ha natura individuale e la partecipazione del familiare ha rilevanza meramente interna nei rapporti tra l'imprenditore e i suoi familiari: difatti, il fondamento stesso di tale istituto va ravvisato nella solidarietà che risiede nei rapporti familiari e nell'esigenza di tutela e valorizzazione del lavoro prestato dai componenti della famiglia che hanno dato il loro contributo all'impresa.
Di conseguenza, l'imprenditore è tenuto a devolvere parte del suo reddito ai componenti della famiglia che collaborano nell'impresa e a liquidare al familiare il diritto di partecipazione nell'ipotesi in cui cessi di lavorare nell'impresa.
In tale contesto, la somma liquidata al collaboratore per la partecipazione all'impresa familiare non è, come detto, assoggettata a Irpef, né rilevante come componente negativo né deducibile dal reddito d'impresa.
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