Il licenziamento come atto di ritorsione reintegra il dipendente al suo posto

Pubblicato il 01 novembre 2010

L’assenza di un giustificato motivo alla base del licenziamento e il carattere ritorsivo dello stesso – scaturito a seguito del rifiuto della lavoratrice di trasferirsi in un’altra sede – hanno portato un’azienda ad essere condannata a riassumere la lavoratrice e a risarcirle il danno.

Il fatto è stato esaminato dalla Corte di Cassazione che, con la sentenza n. 21967/2010, ha accolto il ricorso presentato dalla lavoratrice licenziata, che si era rifiutata di spostarsi per assistere al coniuge malato. La motivazione addotta dalla società che aveva giustificato il suo operato sulla base della necessità del riassetto organizzativo e produttivo dell’impresa - rimesso alla valutazione del datore di lavoro - non è stata accolta dai Supremi giudici.

Per la Corte, infatti, la libertà di iniziativa privata non può in nessun modo recare danno alla libertà e dignità umana. Dunque, il diritto alla conservazione del posto di lavoro è preservato dal fatto che può essere punito solo il recesso privo di giustificato motivo. Cosa che non appare nel caso di specie. Per la Cassazione, infatti, appare evidente come il licenziamento della lavoratrice trova “la sua ragion d’essere solo ed unicamente nella volontà di sanzionare la dipendente per essersi “ribellata” al provvedimento di trasferimento e che quindi debba essere disposta la sua immediata reintegrazione nel posto di lavoro”.

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