La previsione di un contributo minimo a carico di tutti coloro che esercitano la professione forense risponde alle esigenze solidaristiche della categoria ed assicura un trattamento previdenziale minimo anche nel caso di redditi percepiti modesti.
Affrancare, pertanto, alcuni professionisti da detto obbligo determinerebbe un ingiustificato slittamento dell’obbligo contributivo solo in capo ad alcuni di essi.
L’obbligazione previdenziale, del resto, non condiziona a monte l’esercizio di un’attività anche professionale, ma discende come conseguenza della medesima.
Non è pertanto ravvisabile, nella previsione citata, alcuna violazione delle disposizioni costituzionali né in tema di uguaglianza, né di violazione del diritto al lavoro, né di iniziativa privata o di esercizio di un’arte o di una scienza, né in materia tributaria.
Anzi, la necessità di assicurare un trattamento pensionistico a tutti gli iscritti impone la correlata esigenza di prescrivere un contributo minimo obbligatorio, senza il quale la Cassa, al fine di assicurare il pareggio in bilancio, sarebbe tenuta ad aumentare in modo irragionevole la contribuzione richiesta agli avvocati che producono maggiore reddito professionale.
E’ quanto sancito dal Tribunale di Roma, Sezione lavoro, con sentenza n. 4805 del 22 maggio 2017, pronunciata con riferimento alla causa introdotta da un avvocato e volta all’annullamento del Regolamento della Cassa forense attuativo dell’articolo 21, commi 8 e 9 della Legge n. 247/2012.
Nel proprio ricorso, il legale aveva sollevato questione di legittimità costituzionale dell’articolo 21 citato per violazione del principio di legalità ex articoli 23, 97 e 113 della Costruzione, nonché del canone di ragionevolezza della Legge ex articolo 3 e per violazione degli articoli 33 e 41 della medesima Carta costituzionale.
Lo stesso aveva, altresì chiesto il rinvio alla Corte di giustizia Ue per asserito conflitto del Regolamento della Cassa forense con il principio comunitario sulla libertà della concorrenza e sul principio di non discriminazione.
Il tutto, ai fini dell’accertamento della non debenza della contribuzione richiestagli dall’Ente di previdenza degli avvocati relativamente agli anni dal 2014 al 2016, in presenza di un reddito basso.
Con particolare riferimento alla lamentata violazione dell’articolo 23 della Costituzione e del principio secondo cui ogni prestazione previdenziale deve essere imposta dalla legge mentre nel caso di specie - detta del ricorrente – sarebbe stato demandato, senza alcun limite, alla Cassa di stabilire la misura della contribuzione, i giudici capitolini hanno sottolineato che, in realtà, la delegificazione operata dal legislatore nel consentire alla Cassa forense di stabilire la misura del contributo obbligatorio minimo non violerebbe, in sé, alcun limite costituzionale.
Dalla disamina del quadro normativo di riferimento – si legge nel testo della sentenza – emerge che il legislatore, fin dalla privatizzazione dell’Ente previdenziale in oggetto, si è preoccupato di assicurare l’equilibrio economico – finanziario e di garantire l’erogazione delle prestazioni, prevedendo la vigilanza del ministero del Lavoro.
Così, ferma la discrezionalità tecnica affidata alla Cassa nel come attuare i principi di legge, questi impongono l’equilibrio economico-finanziario e la sostenibilità del pagamento delle prestazioni.
Inoltre, non sarebbe riscontrabile alcuna violazione del diritto comunitario, in quanto l’iscrizione all’Ente previdenziale forense non è di ostacolo alla concorrenza né crea discriminazioni tra gli operatori della medesima categoria professionale.
In definitiva, va escluso che l’obbligatorietà dell’iscrizione alla Cassa forense costituisca un ostacolo per l’espletamento dell’attività professionale di avvocato.
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