Un professionista titolare di due partite IVA sospettato dall'Amministrazione finanziaria – la quale, perciò, procede agli accertamenti sui suoi conti bancari e postali – non può ritenere che un indizio insufficiente di evasione fiscale non giustifichi la verifica.
L'Amministrazione finanziaria, che può dunque procedere agli accertamenti, non è neppure è tenuta a motivare le indagini svolte dalla Guardia di Finanza sui movimenti sospetti del professionista.
Il ricorso, ad opera dell'Agenzia delle Entrate, alle indagini bancarie non va motivato, così come a muovere l'accertamento non devono necessariamente essere elementi indiziari gravi, precisi e concordanti (ex art. 192 c.p.p.) di evasione fiscale.
Così, sintenticamente, si esprime la Corte di Cassazione, Sezione tributaria, che, con la sentenza numero 8266 del 4 aprile 2018, lascia salva la legittimità dell'atto impositivo posto in essere dal Fisco. Richiama, per farlo, l'art. 32, del Dpr n. 600 del 1973 - rubricato “Poteri degli Uffici” - che prevede una presunzione legale in virtù della quale le operazioni su conti correnti bancari vanno imputate a ricavi e a fronte della quale il contribuente, in mancanza di espresso divieto normativo e per il principio di libertà dei mezzi di prova, può fornire la prova contraria anche attraverso presunzioni semplici, da sottoporre comunque ad attenta verifica del giudice, il quale é tenuto ad individuare analiticamente i fatti noti dai quali dedurre quelli ignoti, correlando ogni indizio ai movimenti bancari contestati, il cui significato deve essere apprezzato nei tempi, nell'ammontare e nel contesto complessivo, senza ricorrere ad affermazioni apodittiche, generiche, sommarie o cumulative.
Accertamento sui conti correnti bancari e postali del professionista confermato, dunque, dalla Suprema Corte.
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