Rischia una condanna per il reato di falso in attestazioni e relazioni il professionista che espone informazioni false o, comunque, omette di riferire informazioni rilevanti - come quelle relativa a un consistente apporto di finanza - nella relazione allegata al ricorso per l'ammissione al concordato preventivo della società.
Va escluso, difatti, che il nuovo articolo 342 del Codice della crisi abbia determinato un effetto parzialmente abrogativo della vecchia fattispecie.
Lo ha puntualizzato la Corte di cassazione - sentenza n. 13016 del 28 marzo 2024 - dopo aver analizzato i rapporti tra l'art. 236-bis della Legge fallimentare e l'art. 342 del Codice della crisi d'impresa.
Per la Suprema corte, la novella del Codice della crisi non ha determinato un effetto abrogativo.
Il Legislatore, infatti, si è limitato a riformulare la norma con l'inserimento di un inciso che non lascia dubbi circa la non applicabilità di essa alla valutazione prognostica del professionista, intesa in senso stretto.
Il nuovo art. 342, in particolare, punisce "il professionista che nelle relazioni o attestazioni... espone informazioni false ovvero omette di riferire informazioni rilevanti in ordine alla veridicità dei dati contenuti nel piano o nei documenti ad esso allegati".
La nuova previsione, dopo l'aggettivo rilevanti, ha aggiunto le parole "in ordine alla veridicità dei dati contenuti nel piano o nei documenti ad esso allegati".
Per la Corte, la verifica dell'eventuale effetto parzialmente abrogativo determinato dalla novella passa, inevitabilmente, per la corretta interpretazione dell'art. 236 - bis della Legge fallimentare.
Ebbene, per gli Ermellini, l'articolo in esame va interpretato in termini restrittivi: lo stesso dava rilevanza penale anche alle attività che il professionista attestatore prestava con riferimento alla fattibilità economica del piano, anche se limitatamente alla correttezza e alla compiutezza della base informativa nonché alla correttezza dei metodi e dei criteri valutativi impiegati.
In considerazione di ciò, deve essere escluso che la nuova disposizione abbia determinato effetti abrogativi parziali della vecchia fattispecie, rendendo penalmente irrilevanti le attività del professionista relative a:
Per i giudici di Piazza Cavour, del resto, tale interpretazione "restrittiva" risulta perfettamente conforme alle intenzioni del legislatore delegato.
Nella relazione illustrativa al Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza, infatti, si afferma che l'articolo 342 riproduce sostanzialmente, sul punto, il contenuto del vigente articolo 236- bis della Legge fallimentare.
La norma, quindi, non ha contenuto di novità in relazione alle condotte punite, proprio perché deriva da disposizione analoghe già vigenti.
La volontà del legislatore delegato, inoltre, si salda con la Legge delega che escludeva interventi abrogativi delle fattispecie penali.
Sul punto, va ricordato che, secondo costante orientamento della Corte costituzionale, i principi posti dal legislatore delegante costituiscono, non solo base e limite delle norme delegate, ma anche strumento per l'interpretazione della loro portata.
E, nella specie, l'articolo 2 comma 1 lettera a) della Legge delega prevedeva che il Governo, nel riformare in modo organico la disciplina delle procedure concorsuali, dovesse limitarsi, in relazione alle disposizioni penali, a sostituire il termine fallimento e i suoi derivati con l'espressione liquidazione giudiziale, adeguando, dal punto di vista lessicale, anche le relative disposizioni penali.
Il tutto, ferma restando la continuità delle fattispecie criminose.
Tale ultima circostanza, quindi, appare di particolare rilievo punto riguardo alla questione in parola: l'interpretazione esposta attribuisce alla nuova norma un significato perfettamente conforme alla legge delega che imponeva, come detto, di mantenere la continuità delle fattispecie criminose.
E' sulla scorta di tali assunti che la Suprema corte ha ritenuto infondata la tesi proposta da un professionista attestatore, nell'impugnare una decisione di sua condanna, in concorso con l'amministratore unico e poi liquidatore della società, per il reato di cui all'articolo 236-bis della Legge fallimentare.
All'imputato, in particolare, era stato addebitato di avere esposto informazioni false o comunque di aver omesso di riferire informazioni rilevanti nella relazione di cui all'articolo 161, comma 3, della Legge fallimentare allegata al ricorso per l'ammissione al concordato preventivo della società.
Segnatamente, egli aveva indicato il rilevante apporto di nuova finanza - pari a 200mila euro - asseritamente proveniente dalla madre dell'amministratore, senza una previa verifica dell'attendibilità e fattibilità dell'apporto, anche in ordine alle tempistiche e alle modalità di assolvimento dell'obbligo, tenuto conto anche che si trattava di prossimo congiunto del liquidatore (apporto finanziario, infatti, mai avvenuto).
L'imputato, nella relazione di attestazione, non aveva formulato alcun commento, neanche minimo, limitandosi a dare atto, nello schema riepilogativo dell'atto concordatario, dell'esistenza di un apporto di terzi, di presunto realizzo, pari a 200mila euro.
Per il ricorrente, l'articolo 342 del Codice della crisi aveva determinato un effetto parzialmente abrogativo del reato di falsità in relazione o attestazioni, limitando l'ambito applicativo di essa alla sola veridicità dei dati aziendali; il fatto lui contestato, quindi non era più sussumibile nell'ambito del penalmente rilevante, difettando l'elemento specializzante richiesto dalla nuova fattispecie.
I rilievi sono stati giudicati infondati dal Collegio di legittimità, alla luce di tutte le considerazioni sopra esposte.
Nel caso in esame - hanno concluso gli Ermellini - la condotta del professionista continuava a risultare penalmente rilevante.
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