Espressioni offensive? L’avvocato ne risponde anche se agisce in proprio

Pubblicato il 07 marzo 2018

Va confermata la sanzione disciplinare a carico del legale che utilizza espressioni offensive e denigratorie nei confronti di terzi, sia nel caso che agisca in qualità di parte che di difensore.

Le Sezioni Unite civili di Cassazione hanno rigettato il ricorso promosso da un avvocato contro la decisone con cui il CNF aveva confermato, nei suoi confronti, la sanzione disciplinare della censura irrogatagli dal Consiglio dell’ordine degli avvocati di Roma.

L’illecito disciplinare di cui all’articolo 5 del previgente Codice Deontologico, gli era stato contestato per aver utilizzato, in un atto giudiziale, espressioni offensive e denigratorie nei confronti di una donna, con la quale il medesimo e sua moglie avevano un rapporto conflittuale, originato da uno sfratto per morosità poi sfociato in procedimenti anche penali.

Contro la detta pronuncia, il legale aveva avanzato ricorso, in sede di legittimità, lamentando la mancata considerazione del fatto che la condotta censurata era stata posta in essere nell'esercizio del diritto di difesa e di critica del comportamento processuale mantenuto dalla donna. Per questo aveva chiesto l’applicazione della scriminante ex articolo 51 del Codice penale.

Sezioni Unite: illecito disciplinare in ogni ipotesi di violazione dell’obbligo deontologico

Doglianza assolutamente non condivisa dalla Suprema corte, la quale, con sentenza n. 4994 del 2 marzo 2018, ha sottolineato la decisività, al riguardo, del rilievo secondo cui l'illecito disciplinare in argomento rimane integrato in ogni ipotesi di violazione da parte dell'avvocato dell'obbligo deontologico di probità, dignità e decoro.

L’avvocato, ossia, ne risponde sia quando agisca in qualità diversa da quella professionale, sia nell'esercizio del suo ministero.

Per le Sezioni unite, in definitiva, l'esplicazione della propria attività professionale “certamente non legittima l'utilizzazione da parte dell'avvocato di espressioni insultanti o denigratorie”, quale, nella specie, quella utilizzata nella memoria giudiziale.

Da qui, il rigetto del ricorso per infondatezza del motivo di doglianza.

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