Equo indennizzo per irragionevole durata del giudizio. La prova dell’abuso va fornita dall’Amministrazione

Pubblicato il 30 gennaio 2012 La Corte di cassazione, con la sentenza n. 35 del 9 gennaio 2012, ha accolto il ricorso presentato da alcuni ricorrenti avverso la decisione con cui i giudici di merito avevano rigettato la domanda di equo indennizzo dagli stessi avanzata in considerazione dell’irragionevole durata di un procedimento.

Con l’occasione, la Corte di legittimità ha sottolineato come, in caso di violazione del termine di durata ragionevole del processo, il diritto all’equa riparazione di cui all’articolo 2 della legge n. 89/2001 spetta a tutte le parti del processo, indipendentemente dal fatto che esse siano risultate vittoriose o soccombenti; indipendente, a tal fine, è anche la consistenza economica ed importanza del giudizio, salvo il caso in cui “l’esito del processo presupposto non abbia un indiretto riflesso sull’identificazione, o sulla misura, del pregiudizio morale sofferto dalla parte in conseguenza dell’eccessiva durata della causa, come quando il soccombente abbia promosso una lite temeraria, o abbia artatamente resistito in giudizio al solo fine di perseguire proprio il perfezionamento della fattispecie di cui al richiamato articolo 2, e dunque in difetto di una condizione soggettiva di incertezza, restando irrilevante l’asserita consapevolezza da parte dell’istante della scarsa probabilità di successo dell’iniziativa giudiziaria”. Rispetto a tale ultime situazioni di abuso del processo – conclude comunque la Corte - deve dare prova puntuale l’Amministrazione, non essendo sufficiente, a tal fine, la deduzione che la domanda della parte sia stata dichiarata manifestamente infondata.
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