Con sentenza n. 28493 depositata il 3 luglio 2015, la Corte di Cassazione, prima sezione penale, ha respinto il ricorso di una donna, dichiarata colpevole ex art. 660 c.p., per aver effettuato tre chiamate telefoniche alla moglie legittima del suo presunto "amante", parlandole – così arrecandole disturbo e molestia - delle relazioni extraconiugali del di lei marito, sia con essa stessa che con altre donne.
La Cassazione, con la pronuncia in esame, ha respinto una ad una le varie censure mosse dalla ricorrente, e prima fra tutte, quella relativa al numero ridotto di telefonate effettuate.
In proposito, ha sottolineato la Corte, come ciò non costituisca necessariamente un dato essenziale per l'integrazione del reato de quo, a meno che non sia proprio la reiterazione a determinare l'effetto pregiudizievole. Ma nel caso di specie, è evidente che l'idoneità lesiva non è data tanto dal numero, quanto dal contenuto assai grave delle chiamate.
Respinta anche l'osservazione secondo cui la mancata interruzione delle conversazioni da parte della persona offesa, avrebbe dimostrato che essa non si sentiva affatto disturbata dalle chiamate, essendo interessata ad avere ulteriori informazioni. Detto comportamento – ha confermato la Corte – non può considerarsi acquiescenza, attesa l'importanza delle rivelazioni fatte.
Nè la durata delle conversazioni può far dubitare circa la consapevolezza (dunque circa l'esistenza del dolo) da parte dell'imputata, di turbare la sua interlocutrice.
La natura molesta e petulante delle chiamate in questione – ha concluso la Cassazione – si evince in tal caso dalla forma anonima delle stesse, dal contenuto delle informazioni riferite e da alcuni passaggi ritenuti velatamente minatori o comunque tali da prospettare alla persona offesa futuri inconvenienti.
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