Distacco transnazionale: ipotesi di lavoro nero

Pubblicato il 03 settembre 2015

L’art. 45 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (di seguito, per brevità, TFUE) sancisce il principio della libera circolazione dei lavoratori nell’ambito della UE. Ne segue che i cittadini della UE hanno il diritto, tra l’altro, di lavorare in un paese UE senza bisogno di un permesso di lavoro, fruendo della parità di trattamento retributivo, sociale e fiscale, rispetto ai cittadini nazionali. Tale diritto comprende anche la facoltà per il cittadino UE di prendere dimora in uno degli Stati membri al fine di svolgervi un’attività di lavoro, conformemente alle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative che disciplinano l’occupazione dei lavoratori nazionali.

Differenti sono gli istituti contrattuali mediante i quali un lavoratore può essere tenuto a svolgere la propria prestazione in un paese UE diverso rispetto a quello di abituale occupazione. A tal fine viene in rilievo la trasferta ovvero il trasferimento oppure il distacco transnazionale (le condizioni relative al distacco sono illustrate nella Guida pratica sulla legislazione applicabile, disponibile al seguente indirizzo: http://goo.gl/hd0ebi).

Comunque, indipendentemente dalla figura contrattuale utilizzata, assume valore essenziale l’individuazione della legislazione applicabile al rapporto di lavoro.

Al fine di garantire una maggiore tutela in favore dei lavoratori cittadini UE che prestino la propria attività in diversi paesi, il regolamento n. 883/2004 stabilisce il principio per cui il rapporto di lavoro deve essere soggetto a un’unica legislazione.

Tale disciplina viene spesso individuata in base al criterio della territorialità che assoggetta il rapporto di lavoro alla disciplina del paese ove viene svolta la prestazione lavorativa (c.d. lex loci laboris). Si tratta d’altro canto di un’estensione del diritto di cui all’art. 45 del TFUE, che al comma 3 invero comprende anche la facoltà per il cittadino UE di prendere dimora in uno degli Stati membri al fine di svolgervi un’attività di lavoro, conformemente alle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative che disciplinano l’occupazione dei lavoratori nazionali.

Sul piano previdenziale e assicurativo il criterio è derogabile in favore del principio della personalità, qualora la durata della prestazione lavorativa svolta fuori dal paese di invio sia inferiore a 24 mesi e sempre che il rapporto di lavoro sia denunciato allo Stato di invio mediante la richiesta del modello A1 (modelli differenti e cioè DA1 ovvero TEAM oppure S1, invece, sono previsti per la fruizione in uno Stato membro di prestazioni e cure sanitarie), come previsto dall’art. 12, par. 1, Reg. (CE) n. 883/04 e art. 14, Reg. (CE) n. 987/2009, par. 3.1.

Il modello A1 non è un atto autorizzatorio, ma serve solo a certificare quale sia la legislazione di sicurezza sociale applicata al rapporto di lavoro. Il modello A1 in Italia viene rilasciato dall’INPS, su istanza del soggetto interessato. Sicché, se si tratta di lavoro subordinato, l’istanza va presentata dal datore di lavoro che intende inviare in Italia il proprio dipendente. Diversamente, in caso di lavoro autonomo, la richiesta deve essere formulata dal lavoratore medesimo. Il conseguimento del modello A1 serve ad attestare che il lavoratore non è obbligato a versare contributi di sicurezza sociale (compresa l’assicurazione sanitaria) in altri paesi, perché tali adempimenti continuano a essere effettuati nel paese di provenienza del lavoratore. Il modello A1 rimane valido fino alla data di scadenza in esso indicata.

Orbene, considerato che nella UE lo svolgimento della prestazione lavorativa da parte di cittadini UE non postula il rilascio di permessi o autorizzazioni di lavoro da parte di organismi pubblici (regole differenti sono comunque previste per rapporti seguiti in alcuni settori in Croazia, in Austria e in Germania), ne segue che il rilascio del modello A1 costituisce l’unico atto formale e documentale in grado di porre le istituzioni del paese di occupazione (e quindi, per ciò che rileva l’ordinamento italiano, la Pubblica Amministrazione) nella condizione di essere a conoscenza circa l’espletamento (nel proprio territorio) di una prestazione lavorativa da parte di un lavoratore abitualmente occupato in un altro paese UE. A tal fine, risulta istituito il sistema europeo di scambio telematico delle informazioni (EESSI) in cui transitano i documenti portatili sopra decritti (A1, S1, TEAM, DA1) e che devono essere consegnati al lavoratore durante la permanenza nello Stato membro.

Sebbene non vi sia una previsione espressa sul momento temporale entro cui il datore di lavoro o il lavoratore autonomo debbano richiedere tale modello, l’art 45 del TFUE al comma 3 stabilisce che l’attività di lavoro deve essere resa “conformemente alle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative che disciplinano l’occupazione dei lavoratori nazionali”.

In Italia (ma il criterio è valido anche in molti altri paesi UE) vige la regola della preventiva comunicabilità all’organismo pubblico del rapporto di lavoro, che ove non tracciato configura la fattispecie di lavoro nero. Ciò porta a ritenere che quantomeno l’istanza per il conseguimento del certificato A1, debba essere inoltrata all’INPS prima dell’inizio della prestazione lavorativa.

In tal senso il modello A1 deve essere tenuto a disposizione e presentato dal lavoratore o dal datore di lavoro agli organi di vigilanza del paese in cui svolgono l’attività lavorativa, al fine di confermare la propria posizione di sicurezza sociale e di indicare in quale paese vengono versati i relativi contributi.

Alla luce delle argomentazioni sopra esposte, si può dedurre che in assenza del predetto modello e in applicazione della regola della territorialità il lavoratore sarà tenuto a versare i contributi previdenziali nel paese ospitante, cioè in quello presso il quale svolge la prestazione lavorativa (cfr.http://goo.gl/85A0Li).

Si tratta allora di esaminare le conseguenze sanzionatorie nel caso in cui venga riscontrata da parte degli organi di vigilanza l’assenza di tale modello in costanza di rapporto di lavoro. Qualora si tratti di lavoro dipendente si ritiene vada applicata la maxisanzione, maggiorata delle giornate di effettiva occupazione.

Due appaiono le soluzioni prospettabili circa il destinatario della sanzione.

Una prima ipotesi vede come trasgressore il datore di lavoro che ha inviato il lavoratore in Italia e che, antecedentemente l’inizio della prestazione lavorativa,non ha presentato richiesta per ottenere il modello A1.

Vero è che tale lavoratore potrebbe risultare regolarmente assunto dal datore di lavoro nel paese di invio e che pertanto, in tale ottica, la qualifica del rapporto di lavoro come fattispecie di lavoro nero suonerebbe contradditoria. Vero è, tuttavia, che il datore di lavoro, all’atto dell’invio del prestatore in Italia, è tenuto a rispettare le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative che disciplinano l’occupazione dei lavoratori nazionali. Come testé descritto, nell’ambito di tali disposizioni figura anche la previsione per cui la Pubblica Amministrazione deve avere conoscenza del rapporto di lavoro prima dell’inizio della prestazione lavorativa. L’omessa informativa genera un illecito, anche assicurativo e previdenziale,che viene sanzionato con l’applicazione della sanzione per lavoro nero, oltre che con il recupero degli oneri previdenziali e assicurativi. In tal caso tutti i verbali ispettivi (verbale di primo accesso, verbale interlocutorio, verbale definitivo, compresa l’eventuale ordinanza ingiunzione) dovranno essere redatti nella lingua del paese di invio (in via trasversale è corretto l’utilizzo dell’inglese) e notificati secondo le modalità descritte nel vademecum “Il distacco dei lavoratori nell’unione europea” del novembre 2010 redatto a cura del Ministero del lavoro.

Altra ipotesi è quella di trattare il lavoratore inviato in Italia alla stregua di un dipendente del datore di lavoro che fruisce della prestazione. La soluzione sembra meno corretta rispetto alla precedente; però, sotto un profilo pragmatico, può collimare con la prospettazione formulata dalla circolare n. 38/2010 del Ministero del lavoro, che tende a imputare il rapporto di lavoro sconosciuto alla PA in capo al datore di lavoro che si avvale della prestazione lavorativa.

Resta, infine, da osservare che quest’ultima soluzione appare predicabile a maggiore ragione e sempre secondo l’indirizzo contenuto nella circolare n. 38 cit., nel caso di lavoratore autonomo privo del certificato A1 e che per un verso non risulti aver esercitato attività autonoma per almeno due mesi nel paese UE in cui è stabilita la sua occupazione, e che per altro verso non abbia in tale paese i requisiti che legittimano la qualifica di lavoratore autonomo (versamento delle imposte, possesso di un numero di partita IVA; registrazione presso camere di commercio o organismi professionali equivalenti; titolarità di una tessera professionale).

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