L’elemento della colpevolezza rilevante ai fini dell’applicazione della sanzione per dichiarazione infedele consiste, per i soci non amministratori, nell’omesso o insufficiente esercizio del potere di controllo sullo svolgimento degli affari sociali e di consultazione dei documenti contabili, nonché del diritto ad ottenere il rendiconto dell’attività sociale.
Per i soci amministratori, invece, discende dall’omesso o insufficiente esercizio dei poteri di gestione, direzione e controllo dell’attività sociale.
Lo ha precisato la Corte di cassazione nel testo della sentenza n. 3079 del 9 febbraio 2021, in accoglimento del motivo di doglianza prospettato dall’Agenzia delle entrate avverso una statuizione con cui i giudici di appello avevano dichiarato non dovute le sanzioni per infedele dichiarazione irrogate ai soci di una Sas.
Questo nell’ambito di un accertamento di maggior reddito societario risultante dalla rettifica operata nei confronti della società di persone ed imputato ai soci, ai fini Irpef, in proporzione della loro quota di partecipazione: da tale accertamento era scaturita anche l’applicazione agli stessi soci delle sanzioni per infedele dichiarazione.
La Corte territoriale, in particolare, aveva escluso la sanzionabilità di questi sulla considerazione dell’intento fraudolento quale presupposto imprescindibile della norma incriminatrice di cui all’art. 5 del D. Lgs. n. 472/1997: secondo i giudici di appello, ossia, non era sufficiente, per applicare le sanzioni, la mera volontarietà del comportamento.
Gli Ermellini, in proposito, hanno ricordato come la disposizione richiamata, nella configurazione dell’illecito tributario, prescinda dall’esigenza di un dolo specifico e reputi sufficiente, per la relativa punibilità, la mera colpa, che si presume a carico di colui che abbia consapevolmente e volontariamente posto in essere l’atto vietato, salvo che provi di avere agito inconsapevolmente.
Basta, quindi, la coscienza e volontà, senza che occorra la concreta dimostrazione del dolo o della colpa, atteso che la norma pone una presunzione di colpa per l’atto vietato a carico di chi lo ha commesso, lasciando a costui l’onere di provare di aver agito senza colpa.
Principio che si applica anche al socio accomandante di una società in accomandita semplice, risultando irrilevante l’estraneità di tali soci all’amministrazione della società, in quanto agli stessi è sempre consentita la verifica dell’effettivo ammontare degli utili conseguiti.
La sanzione, quindi, non viene irrogata al socio accomandante sulla base della mera volontarietà, in contrasto con l’elemento della colpevolezza introdotto dall’art. 5 del D. Lgs. n. 472/1997, consistendo, nel suo caso, la colpa nell’omesso o insufficiente esercizio del potere di controllo sull’esattezza dei bilanci della società.
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