Al mafioso va applicata la misura cautelare della custodia in carcere, a prescindere dal suo ruolo (apicale o non) all'interno dell’associazione criminale.
Lo ha stabilito la Consulta, dichiarando infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art 275 comma 3 c.p.p. “nella parte in cui, nel prevedere che quando sussistano gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all'art. 416 bis c.p. è applicata la misura della custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari, non fa salva altresì l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possano essere soddisfatte con altre misure”. I giudici d’appello avevano inoltrato la presente questione alla Corte Costituzionale, nell'ambito di un giudizio ove un imputato, per l’appunto condannato ex art. 416 bis c.p. e sottoposto alla misura cautelare della custodia carceraria, chiedeva la sostituzione di detta misura con quella degli arresti domiciliari, assistita semmai dal divieto di comunicare con persone diverse dai familiari conviventi e con ausilio di mezzi di controllo elettronici.
Orbene la Consulta, con l’occasione, ha chiarito la ratio giustificativa del particolare regime stabilito per gli imputati di associazione mafiosa, rilevando che l’appartenenza a siffatto sodalizio criminale, nella generalità dei casi e secondo una regola di esperienza sufficientemente condivisa, genera un’esigenza cautelare che può essere soddisfatta solo con la custodia in carcere, non essendo le misure “minori” sufficienti a troncare i rapporti tra l’indiziato e l’ambito delinquenziale di appartenenza in modo da neutralizzarne la pericolosità.
Né la diversa graduazione di gravità e di pericolosità tra le condotte dei singoli appartenenti all'associazione – pur rilevante ai fini della determinazione della pena da irrogare in concreto - va ad incidere sulle esigenze cautelari, perché anche la semplice partecipazione è idonea, per le connotazioni criminologiche del fenomeno mafioso, a giustificare la presunzione sulla quale si basa la norma in questione, sospetta di incostituzionalità.
In questa prospettiva – conclude la Corte con ordinanza n. 136 del 12 giugno 2017 – non ha alcun rilievo la distinzione tra la posizione del semplice partecipe e quella degli associati con ruoli apicali, perché, quali che siano le specifiche condotte, il dato che rileva, e che sotto l’aspetto cautelare li riguarda tutti ugualmente, è costituito dal tipo di vincolo che li lega nel contesto associativo mafioso.
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