E' legittimo il provvedimento con cui la Cassa previdenziale dichiara incompatibile con la professione di commercialista l'attività svolta di presidente del Consiglio d'amministrazione, di amministratore unico, di preposto e socio di maggioranza della società.
Per i commercialisti, infatti, l'attività d'impresa è in linea generale vietata e, nella disciplina attuale, l'incarico di amministratore è consentito solo al ricorrere di requisiti tassativi.
La Corte di cassazione, con ordinanza n. 26346 del 12 settembre 2023, si è pronunciata sulla vicenda riguardante un commercialista che aveva ricoperto diverse cariche al vertice di una Srl.
La Cassa previdenziale, nei suoi confronti, aveva disposto la cancellazione delle annualità contributive per gli anni di copertura dei predetti ruoli, nonostante il Consiglio dell'ordine dei commercialisti avesse precedentemente negato che tali attività potessero dare adito a situazioni d'incompatibilità.
La Corte d'appello, in tale contesto, aveva accolto le ragioni del professionista e, per questo motivo, l'Ente previdenziale si era rivolto al Collegio di legittimità.
Le doglianze della Cassa sono state giudicate fondate dalla Suprema corte, dopo aver sottolineato che, nella vicenda in esame, i fatti - che si erano svolti dal 1995 al 2011 - dovevano essere valutati ratione temporis sia alla luce della normativa contenuta nell'art. 3 del DPR n. 1067/1953 che in base alla disciplina dettata dall'art. 4 del D. Lgs. n. 139/2005, al cui comma 4, è prescritto che le ipotesi di incompatibilità siano "valutate con riferimento alle disposizioni di cui al presente articolo anche per le situazioni in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto legislativo".
Da una parte, la previgente normativa disponeva che l'esercizio della professione di dottore commercialista fosse incompatibile con l'esercizio del commercio in nome proprio o in nome altrui.
Dall'altra, l'attuale normativa prescrive che l'esercizio della professione di dottore commercialista ed esperto contabile è incompatibile con l'esercizio, anche non prevalente, né abituale dell'attività di impresa, in nome proprio o altrui e, per proprio conto, di produzione di beni o servizi.
L'incompatibilità - dispone altresì l'articolo 4 richiamato - è esclusa "qualora l'attività, svolta per conto proprio, è diretta alla gestione patrimoniale, ad attività di mero godimento o conservative, nonché in presenza di società di servizi strumentali o ausiliari all'esercizio della professione, ovvero qualora il professionista riveste la carica di amministratore sulla base di uno specifico incarico professionale e per il perseguimento dell'interesse di colui che conferisce l'incarico".
Tale ultima previsione, dunque, sottrae all'ambito dell'incompatibilità:
Ebbene, secondo gli Ermellini, i giudici di merito non avevano fatto corretta applicazione della disciplina delle incompatibilità.
Difatti, nell'affermare l'integrale compatibilità tra le cariche sociali ricoperte dal deducente e la professione di commercialista, essi non avevano correttamente interpretato il divieto generale di esercitare attività di impresa, pur se attenuato dalla più recente normativa con l'introduzione di deroghe tassative.
La sentenza impugnata, nel dettaglio, risultava censurabile laddove:
Il commercialista, invero, quale legale rappresentante, presidente del Cda e quindi amministratore unico della Srl, era stato depositario di complessi compiti gestori e della funzione di esternare la volontà della società di capitali. Senza contare che lo stesso era stato anche socio di maggioranza e preposto.
Era pertanto irrilevante che lo stesso avesse curato la parte amministrativa, si fosse occupato del personale e degli adempimenti che connotano la professione di commercialista, a fronte dei molteplici e cospicui ruoli ricoperti nella compagine sociale e del divieto di svolgere attività d'impresa, pur se attenuato dall'attuale disciplina che impone, comunque, di accertare se l'incarico di amministratore sia stato svolto soltanto nell'interesse del terzo.
In tale valutazione complessiva, inoltre, non si poteva trascurare anche la qualità di socio di maggioranza della società, qualità che si accompagnava a quella di preposto e che rivelava un interesse tangibile e tutt'altro che remoto alle vicende della società.
La Corte di merito, in conclusione, non aveva svolto alcuna indagine in ordine ai requisiti che la legge reputa rilevanti.
Ciò posto, la valutazione dell'incompatibilità non poteva considerarsi meno stringente sul fronte previdenziale: andava considerata, infatti, la necessità di un impiego oculato delle risorse, allo scopo di attuare l'imperativo costituzionale di prevedere, in caso di vecchiaia, mezzi adeguati alle esigenze di vita dei lavoratori e di accordare la tutela a quei soli lavoratori che abbiano esercitato in maniera legittima la professione.
La sentenza impugnata, in definitiva, è stata cassata, con rinvio per un nuovo esame di merito.
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