Confermata, dalla Corte di cassazione, la decisione con cui i giudici di secondo grado avevano ritenuto legittimo il licenziamento disciplinare irrogato nei confronti di un lavoratore per le gravi condotte da questi poste in essere, consistite in molestie sessuali avvenute in ufficio nei confronti di una collega oltre ad accessi non autorizzati sul conto corrente del marito di quest’ultima.
Era stato ritenuto che i fatti addebitati al prestatore fossero di gravità tale da integrare l'ipotesi della giusta causa di licenziamento e da giustificare, quindi, l'applicazione della massima sanzione espulsiva.
Secondo la Corte d’appello, la particolare gravità della condotta portava a ritenere il comportamento del lavoratore idoneo a vulnerare, in maniera irreparabile, il peculiare vincolo di fiducia con la società datrice e, quindi, a considerare il licenziamento sorretto da giusta causa nonché proporzionato ai fatti contestati.
Conclusioni a cui ha aderito la Suprema corte nel testo della sentenza n. 25977 del 16 novembre 2020, di rigetto del ricorso con cui il lavoratore aveva impugnato la decisione di merito.
Il ricorrente, tra gli altri motivi, aveva invocato la falsa applicazione degli artt. 2119 e 2106 del Codice civile, in ordine alla illegittimità del licenziamento intimatogli per insussistenza della giusta causa e per difetto del requisito di proporzionalità, in relazione alla entità dei comportamenti tenuti.
Motivo giudicato infondato dagli Ermellini, i quali hanno ricordato che la giusta causa di licenziamento e la proporzionalità della sanzione disciplinare sono nozioni che la legge - allo scopo di adeguare le norme alla realtà da disciplinare - configura con disposizioni ascrivibili alla tipologia delle cosiddette clausole generali, di limitato contenuto e delineanti un modulo generico da specificare in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi tacitamente richiamati.
Tali specificazioni del parametro normativo – ha continuato la Corte – “hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è, quindi, deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l'accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo – come nel caso di specie - di errori logici o giuridici”.
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