Cessione d’azienda. L’avviamento oggetto di accertamento

Pubblicato il 24 ottobre 2011 Le cessioni d’azienda avviate negli scorsi mesi, che dovrebbero concludersi entro la fine del 2011, rischiano di essere oggetto di accertamento fiscale, specie con riferimento al valore dell’avviamento. Ma, come sostenuto anche dalla recente giurisprudenza in tema di accertamento di valore nelle cessioni d’azienda o di rami d’azienda, la verifica potrebbe non risultare così agevole da effettuare.

È da ricordare che la cessione d’azienda produce due tipi di prelievo tributario: quello ai fini dell’imposta di registro, nella misura del 3% del valore venale, che grava sull’acquirente; quello ai fini delle imposte dirette, che grava sul cedente, nel caso dall’operazione di cessione derivi una plusvalenza.

Si tratta di due situazioni molto diverse tra di loro, poiché nel primo tipo di tassazione a rilevare è un valore, mentre nella seconda un prezzo. Di solito, poi, tra prezzo e valore non vi è alcun collegamento come affermato nella vecchia, ma ancora efficace, risoluzione n. 9/1437/1978, che sostiene che la rettifica ai fini dell’imposta di registro non ha alcuna efficacia automatica nel comparto delle imposte dirette.

Su tale aspetto, la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha individuato una posizione ormai consolidata secondo cui, in virtù del principio di unicità degli accertamenti, se il prezzo di cessione indicato nell’atto viene rettificato ai fini dell’imposta di registro, la plusvalenza imponibile è determinata sulla base di questo secondo valore. Da un semplice indizio pratico deriva una presunzione qualificata secondo cui una parte del corrispettivo è sottratta all'imposizione.

Tuttavia, sul punto sono emerse posizioni discordanti dal momento che, in pratica, si possono individuare molti casi in cui il cedente si può trovare nella condizione di vendere ad un prezzo inferiore al valore di mercato. In tali circostanze, la Cassazione appesantisce la posizione del cedente facendo ricadere su di lui l’onere di provare – attraverso la propria contabilità – di non aver riscosso un corrispettivo più elevato. Con una conseguente inversione dell’onere della prova e altrettante difficoltà pratiche rispetto a quello che la prassi riserva all’ente accertatore.

Sempre in tema di cessione d’azienda, più complesso appare il discorso dell’avviamento ai fini dell’accertamento. Come più volte ribadito in giurisprudenza, per la valutazione degli atti relativi ad aziende deve farsi riferimento al valore complessivo del compendio aziendale di cui fa parte anche l’avviamento. Quest’ultimo, secondo quanto sancito dai principi contabili nazionali (Oic n. 24) è da individuare “nell’attitudine di un’azienda a produrre utili in misura superiore a quella ordinaria”. Ne emerge la difficoltà pratica di una sua autonoma individuazione, essendo considerato come una qualità dell’azienda, per cui è difficile individuare il metodo più affidabile per la sua corretta determinazione.

Sul piano pratico, la verifica degli uffici per la corretta determinazione del valore dell’avviamento nei trasferimenti d’azienda non è agevole, basandosi su metodi rigidi che prevedono l’applicazione di formule standardizzate che spesso portano ad individuare valori del tutto estranei dalla realtà. Il solo fatto che la stima dell’avviamento viene ricavata da una formula matematica tarata sul reddito, a prescindere dalle situazioni individuali di ogni azienda (dimensione, settore di appartenenza), porta a individuare valori poco attinenti alla realtà. Di qui, le opposte posizioni condivise a livello giurisprudenziale che in parte giustificano e in parte no l’accertamento sull’avviamento d’azienda. A coloro che risultano favorevoli, si oppone una corrente di pensiero che sostiene la tesi che il maggior avviamento determinato con tali calcoli rigidi porta alla determinazione di valori puramente indiziari e, dunque, non sufficienti a giustificare un eventuale accertamento da parte del Fisco.
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