Cessazione appalto: licenziamento illegittimo se manca il nesso causale

Pubblicato il 31 luglio 2020

Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo è illegittimo se motivato dalla semplice cessazione dell’appalto e il lavoratore può essere reintegrato.

La Cassazione, sezione lavoro, con sentenza n. 16253, depositata il 29 luglio 2020, respinge il ricorso presentato da una S.p.a. avverso la sentenza della Corte di appello di Roma che, nel confermare la decisione del giudice di primo grado, aveva escluso che la cessazione dell’appalto potesse costituire di per sé un giustificato motivo di licenziamento in assenza della prova del nesso causale tra la ragione organizzativo produttiva posta a base del recesso e la soppressione del posto di lavoro, atteso che il dipendente non era addetto esclusivamente né prevalentemente a detto appalto.

La Suprema Corte interviene nella questione chiarendo la portata della L. 92/2012 in merito alla graduazione delle tutele in caso di licenziamento illegittimo. In particolare, si legge, il comma quarto dell’art. 18 prevede una tutela reintegratoria “attenuata” (per distinguerla da quella più incisiva di cui al primo comma), in base alla quale il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore e al pagamento di un’indennità risarcitoria dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, in misura comunque non superiore a 12 mensilità; il quinto comma dello stesso articolo stabilisce una tutela meramente indennitaria per la quale il giudice dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data di licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria omnicomprensiva determinata tra un minimo di 12 mensilità e un massimo di 24, tenuto conto di vari parametri contenuti nella disposizione medesima.

Tutela reintegratoria per manifesta insussistenza del fatto

Il discrimen tra le due tutele, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo illegittimo, è descritto, evidenziano i giudici, dal successivo settimo comma che prevede che il giudice “Può altresì applicare la predetta disciplina – quella di cui al quarto commanell’ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo; nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo, il giudice applica la disciplina di cui al quinto comma”

In tema di licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, la giurisprudenza della recente Cassazione, proseguono gli Ermellini, ha statuito che la mancanza di un nesso causale tra recesso datoriale e motivo addotto a suo fondamento è sussumibile nell’alveo di quella particola evidenza richiesta per integrare la manifesta insussistenza del fatto che giustifica, ai sensi dell’art. 18, comma 7, l. 300/1970, così come modificato dalla l. 92/2012, la tutela reintegratoria attenuata.

Nel caso di specie, rilava la Corte, non sono emersi nemmeno in modo sommario elementi atti a far ritenere che la posizione del dipendente fosse diventata esuberante o che lo stesso non fosse più proficuamente utilizzabile e tale insussistenza si traduce ictu oculi nella “manifesta insussistenza del fatto” in quanto lo stesso appare difettare tout court in modo evidente.

Corretta, quindi, deve ritenersi la decisione del giudice di secondo grado in ordine alla tutela reintegratoria attenuata di cui al comma 4 dell’art. 18 nel suo combinato disposto con il settimo comma.

La Cassazione respinge, pertanto, il ricorso.

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