Non vi è più l'obbligo da parte delle Casse di previdenza di devolvere allo Stato le somme derivanti dalla spending review.
Il principio è stato sancito dalla Corte Costituzionale, nella sentenza n. 7 dell'11 gennaio 2017, con la quale viene dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'articolo 8, comma 3, del Decreto legge n. 95/2012, convertito nella legge 135/2012, nella parte in cui si prevede che le somme derivanti dalle riduzioni di spesa siano versate annualmente nella casse dello Stato.
La battaglia è stata sollevata dalla Cassa nazionale dei dottori commercialisti, che dopo l'entrata in vigore della spending review di Monti, di cui al suddetto decreto n. 95 del 2012, si è rivolta al Consiglio di Stato che, con l'ordinanza 208/2015, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale.
La Consulta, occupandosi in modo specifico dei commercialisti, ha comunque fissato un principio generale che vale per tutte le Casse di previdenza private.
Oggetto di esame è stato l’articolo 8, comma 3 del Dl 95/2012 che prevede per tutti gli enti inclusi nell’elenco Istat della PA la doppia richiesta di ridurre del 5% nel 2012 e del 10% dal 2013 la spesa per i propri “consumi intermedi” (ossia le spese di funzionamento), e versare i risparmi al bilancio nello Stato.
A tal proposito, le casse di previdenza - secondo il Mef - in quanto rientranti nell'elenco Istat avrebbero dovuto applicare immediatamente la disposizione e, dunque, adottare interventi di razionalizzazione per la riduzione della spesa per consumi intermedi e, poi, riversare, annualmente nelle casse dello Stato quanto risparmiato.
La Corte costituzionale, analizzando la questione in relazione alle casse di previdenza private, ha bocciato la norma sulla spending review di Monti, ritenendo che la prima richiesta di razionalizzazione delle spese di funzionamento è legittima perché rientra nel “coordinamento della finanza pubblica” che lo Stato deve assicurare, mentre la seconda richiesta è da considerare illegittima e va cancellata perché limita in modo irragionevole la libertà economica dei cittadini, viola i diritti previdenziali e non rispetta il principio del buon andamento della Pa.
Secondo quanto si legge nella sentenza n. 7/2017, la motivazione della decisione della Consulta è da ritrovare nelle condizione di fondo delle Casse di previdenza private che non ricevono alcun finanziamento pubblico, ma vivono sulla base dei contributi obbligatori versati dagli iscritti.
Questa condizione - secondo i giudici costituzionali - prevale rispetto alla inclusione di tali enti previdenziali nell'elenco Istat della PA, valendo, di fatto, la condizione che privilegia la sostanza sulla forma.
Inoltre, se può essere ammissibile da parte dello Stato una richiesta di prelievo eccezionale in un momento di difficoltà economica, non può, invece, essere contemplato a carico delle Casse un prelievo strutturale e continuativo.
L'attuale presidente della Cassa nazionale di previdenza e assistenza dei dottori commercialisti (Cnpadc), Walter Anedda si dice molto soddisfatto della decisione della Consulta affermando che: “la sentenza oggi pubblicata è un grande risultato per tutti gli iscritti alla Cassa Dottori Commercialisti (e dei professionisti in genere), che vedono difeso dal proprio Ente il diritto a vedere impiegati i propri risparmi previdenziali unicamente per le finalità istituzionali, senza che, attraverso una surrettizia forma di imposizione tributaria, possano essere destinati a una generica finalità di copertura della spesa pubblica”.
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