Carcere per apologia Isis su Facebook

Pubblicato il 04 novembre 2016

La Corte di cassazione ha confermato la misura della custodia cautelare in carcere disposta nei confronti di un uomo a seguito del grave quadro indiziario emerso a suo carico sulla base dell’analisi del contenuto di vari messaggi dallo stesso postati su diversi profili del social network Facebook nonché sull’attività di intercettazione telematica e ambientale.

La misura era stata irrogata nel contesto delle indagini svolte nell’ambito dell’attività di monitoraggio della rete internet, quale luogo di reclutamento e affiliazione a organizzazioni terroristiche internazionali, e, nel dettaglio, nell’ambito del controllo su Facebook, nel cui interno erano spesso veicolate informazioni dirette all’indottrinamento ai principi fondanti lo stato islamico ISIS.

In particolare, in uno di questi profili riferibili all’indagato erano risultati pubblicati post dal tenore antiamericano, antisemita e antisraeliano e messaggi di propaganda antioccidentale, in linea con quanto pubblicato sui profili di quelli che avevano aderito al medesimo, attraverso lo stato di “amicizia”, tra i quali erano ricompresi alcuni nomi di soggetti già segnalati per le loro simpatie a gruppi terroristici internazionali.

Diversa qualificazione fatto

Nella specie, il Tribunale aveva confermato la misura cautelare ritenendo l’indagato gravemente indiziato del reato di cui all’articolo 302 del Codice penale di istigazione a commettere delitti contro la personalità internazionale dello Stato e contro la personalità interna dello Stato, in relazione all’articolo 280 del Codice penale (Attentato per finalità terroristiche o di eversione), così diversamente qualificato rispetto al reato originariamente contestato di istigazione e apologia di delitti di terrorismo di cui all’articolo 414, commi 1, 3 e 4 del Codice penale.

Rispetto alla specifica doglianza denunciata dal ricorrente con riferimento alla difformità tra il fatto risultato dagli atti e la fattispecie contestata, la Suprema corte – sentenza n. 46178 del 3 novembre 2016 - ha ricordato come, anche nell’ambito del giudizio de libertate, il giudice del riesame o dell’appello siano legittimati a modificare la definizione giuridica data dal pubblico ministero al fatto addebitato, “fermo restando quest’ultimo inteso come accadimento della realtà e rimanendo circoscritti gli effetti della correzione del nomen juris al procedimento incidentale in corso”.

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