I cittadini extracomunitari, soggiornanti di lungo periodo e con permesso unico di lavoro, non possono essere trattati diversamente dai cittadini italiani nell’accesso al beneficio dell’assegno per il nucleo familiare (ANF), anche nei casi in cui alcuni componenti della famiglia risiedono temporaneamente nel paese di origine.
Lo ha puntualizzato la Corte costituzionale nel testo della sentenza n. 67 dell'11 marzo 2022, con cui ha dichiarato inammissibili due questioni di legittimità sollevate dalla Cassazione.
Con riferimento alla disciplina dell’assegno ANF, in particolare, la Consulta ha precisato che va data attuazione al diritto dell’Unione europea, come interpretato nelle sentenze rese dalla Corte di giustizia in ordine alle cause C‑302/19 e C‑303/19.
Occorre procedere, così, alla disapplicazione della disposizione di cui all’art. 2, comma 6-bis, del Dl n. 69/1988, norma che - si rammenta - introduce una diversa nozione di nucleo familiare riferita ai cittadini stranieri.
Si tratta, nel dettaglio, della disciplina secondo la quale, ai fini del riconoscimento del diritto all’assegno familiare, il requisito della residenza nel territorio italiano non è richiesto per i familiari del cittadino italiano, mentre lo è per i familiari del cittadino straniero, salvo che sussista un regime di reciprocità o sia in vigore una convenzione internazionale con il paese d’origine di quest’ultimo.
Secondo la Consulta, "il principio del primato del diritto dell’Unione e l’art. 4, paragrafi 2 e 3, TUE costituiscono dunque l’architrave su cui poggia la comunità di corti nazionali, tenute insieme da convergenti diritti e obblighi".
Principio, questo, costantemente affermato dalla Corte, che ne ha valorizzato gli effetti propulsivi nei confronti dell’ordinamento interno.
Nella prospettiva di tale primato, quindi, alle norme di diritto europeo contenute negli artt. 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2003/109/CE e 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/98/UE, va riconosciuto effetto diretto nella parte in cui prescrivono l’obbligo di parità di trattamento tra le categorie di cittadini di paesi terzi individuate dalle medesime direttive e i cittadini dello Stato membro in cui costoro soggiornano.
A tale obbligo corrisponde il diritto del cittadino di paese terzo – titolare di permesso di lungo soggiorno e titolare di un permesso unico di soggiorno e di lavoro – a ricevere le prestazioni sociali alle stesse condizioni previste per i cittadini dello Stato membro.
L’intervento dell’Unione si sostanzia, in particolare, nella previsione dell’obbligo di non differenziare il trattamento del cittadino di paese terzo rispetto a quello riservato ai cittadini degli stati in cui essi operano legalmente.
Si tratta di un obbligo imposto dalle direttive richiamate in modo chiaro, preciso e incondizionato, come tale dotato di effetto diretto.
Sulla base di queste considerazioni, in definitiva, è stato ritenuto che nei giudizi esaminati ricorressero le condizioni per fare luogo alla disapplicazione dell’art. 2, comma 6-bis citato.
Ciò posto, le questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto tale disposizione sono state dichiarate inammissibili, per difetto di rilevanza.
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