La Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 567 comma 2 c.p. - alterazione di stato civile nella formazione dell’atto di nascita - nella parte in cui prevede la pena edittale della reclusione da un minimo di cinque a un massimo di quindici anni, anziché la reclusione da un minimo di tre a un massimo di dieci anni.
La questione è stata sollevata nell'ambito di un giudizio penale nei confronti di due imputati, accusati, ex art. 567 comma 2 c.p., per aver concorso nell'alterazione dell’atto di nascita di una neonata, attestando falsamente che la stessa era nata dalla loro unione naturale. Il giudice rimettente, in particolare, contestava la legittimità costituzionale della sanzione, nella specie irrogata nell'ambito di un quadro edittale (cinque – quindici anni di reclusione) ritenuto assolutamente sproporzionato rispetto alla gravità dell’offesa.
La Consulta, nell'accogliere la censura, ha ritenuto che la manifesta irragionevolezza per sproporzione della forbice edittale censurata, si evidenzia al cospetto della meno severa cornice (reclusione da tre a dieci anni) che il medesimo art. 567 c.p. prevede, al primo comma, per l’altra fattispecie di alterazione dello stato di famiglia del neonato, commessa mediante sua sostituzione.
I due reati, rispettivamente disciplinati nel primo e nel secondo comma del medesimo art. 567 c.p., ancorché autonomi, presentano rilevanti tratti comuni, posto che descrivono uno stesso evento delittuoso consistente nell’alterazione dello stato civile di un neonato, tuttavia con modalità esecutive diverse.
Identico, in definitiva, è il bene giuridico leso, sia pure in forme diverse. Ma le differenti modalità esecutive, tuttavia, non esprimono in sé connotazioni di disvalore tali da legittimare una divergenza di trattamento sanzionatorio; divergenza che appare pertanto manifestamente irragionevole.
Alla luce di tutto ciò, secondo la Consulta - nei limiti del proprio potere di intervento, non potendosi sostituire al legislatore – l’unica soluzione praticabile consiste nel parificare il trattamento sanzionatorio delle due fattispecie nelle quali si articola l’unitario art. 567 c.p. (entrambe sanzionabili, dunque, con reclusione da tre a dieci anni), trattandosi, appunto, di utilizzare coerentemente “grandezze” già rinvenibili nell'ordinamento.
Detta soluzione – conclude la Corte Costituzionale con sentenza n. 236 del 10 novembre 2016 – riconsegna al giudice la possibilità di adeguare effettivamente la pena alle circostanze del caso concreto, calibrandola altresì alla finalità rieducativa cui essa deve mirare.
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