Affitto d’azienda è bancarotta fraudolenta se disperde il patrimonio e lede i creditori

Pubblicato il 05 giugno 2018

Integra il reato di bancarotta fraudolenta per distrazione (ex articolo 216 della legge fallimentare) il contratto di affitto di azienda stipulato in prossimità della sentenza dichiarativa di fallimento e con lo scopo specifico di trasferire la disponibilità di tutti o dei principali beni aziendali ad altro soggetto giuridico.

Lo sancisce la Corte di Cassazione, Sezione penale, con la sentenza n. 9768/2018, nella quale viene confermato un radicato orientamento giurisprudenziale che individua il confine di ammissibilità dell’affitto nelle operazioni di gestione della crisi.

Il contratto di affitto dell’azienda

L’utilizzo, molto frequente, dello strumento dell’affitto è da ricondurre ad almeno due ragioni fondamentali: da una parte, tramite l’affitto si può trasferire rapidamente la gestione dell’azienda in capo ad un soggetto diverso, evitando così che l’insieme di beni e rapporti giuridico/aziendali si disgreghi irreparabilmente, anche se l’azienda è sofferente; dall’altra parte, l’affitto dell’azienda consente di frenare le perdite di gestione - seppure deficitaria – e di consolidare il passivo, evitando nel fallimento l’ampliamento del dissesto e consentendo nel concordato preventivo la formulazione di una proposta che assicuri ai creditori un’utilità individuata ed economicamente valutabile.

In nessun caso, però, l’affitto può provocare un danno al patrimonio del debitore.

No all’affitto dell’azienda che depaupera il patrimonio del debitore e danneggia i creditori

Su tale assunto si basa l’orientamento della Suprema Corte, che ritiene inammissibile il fatto che il contratto di affitto dell’azienda possa essere concluso lasciando l’impresa dissestata e nell’impossibilità di assumere iniziative, così da ostacolare la cessione del patrimonio o depauperarne il valore di realizzo e, in ogni caso, causare un danno ai creditori concorsuali.

Pertanto, come nel caso di specie, il contratto di affitto dell’azienda ad una società “decisamente satellite”, concluso in prossimità del fallimento e quando era già manifesto lo stato di insolvenza - comportando il trasferimento dei beni aziendali e il conseguente pregiudizio per la garanzia patrimoniale dei creditori – è da considerarsi, in linea con il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità in tema di reati fallimentari, una fattispecie che integra gli estremi del delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione.

A nulla sono valse le doglianze dei ricorrenti, che fanno leva sui dati relativi al canone pattuito, come indicato nella sentenza di primo grado, dalla quale emerge che il canone annuo era di 24.000 euro, contro un valore dei cespiti decisamente superiore (più di 61.000 euro).

Tutto ciò, secondo la sentenza n. 9768/2018, considerato il rilievo dello stato d’insolvenza già manifestatosi, rende ragione del carattere fraudolento dell’operazione, di cui, nella specie, i ricorrenti neppure allegavano una motivazione economico-imprenditoriale.

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