I provvedimenti che autorizzano gli accessi domiciliari devono essere sottoposti a diretta contestazione ed impugnazione da parte del contribuente, unitamente all’atto finale del procedimento impositivo.
In assenza di contestazione, risulta preclusa, al riguardo, l’attivazione e l’esercizio di poteri esercitabili d’ufficio da parte del giudice di merito.
Difatti, nel processo tributario, analogamente a quanto avviene nel processo del lavoro, l’articolo 7 del Decreto legislativo n. 546/1992 - sulla possibilità di acquisizione d’ufficio di mezzi di prova - è norma eccezionale che impedisce al giudice di sopperire alle carenze istruttorie delle parti.
E’ quanto precisato dalla Corte di cassazione nel testo della sentenza n. 20943 del 6 agosto 2019, sul tema dell’ampliamento della giurisdizione tributaria disposto dalla Legge n. 448/2001, con l’estensione non solo della possibilità di impugnazione dell’atto conclusivo del procedimento impositivo ma anche del sindacato sulla legittimità degli atti presupposti e preparatori, compresi, appunto, i provvedimenti autorizzatori gli accessi domiciliari.
Nella vicenda esaminata - avente ad oggetto l’impugnazione di una sentenza di merito confermativa di un avviso di accertamento emesso dall'Agenzia delle Entrate ai fini Ires, Irap ed Iva - la Suprema corte ha ritenuto infondato il motivo di impugnazione del contribuente incentrato sulla mancata allegazione, da parte dell'Ufficio, del provvedimento dell'autorità giudiziaria che aveva disposto l'accesso presso il suo domicilio, e sull'omessa valutazione, da parte della CTR, dei presupposti (sussistenza di gravi indizi) legittimanti l'accesso domiciliare medesimo.
Sul punto, gli Ermellini hanno sottolineato come fosse onere del ricorrente che, come nella specie, assumeva la mancanza di motivazione dell’autorizzazione in relazione alla sussistenza di gravi indizi, riprodurre il testo di tale provvedimento, non essendo consentito alla Corte di conoscere ed esaminare gli atti di causa rilevanti ai fini del merito.
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