La Cassazione si pronuncia sul ricorso di un professionista contro l'imputazione di svolgimento di attività riservata a commercialisti ed a consulenti del lavoro, titoli professionali mai conseguiti dall'interessato.
Nello specifico, il professionista operava – dopo l'approvazione del D.Lgs. 28 giugno 2005, n. 139 - attraverso una società di servizi il cui oggetto ricomprendeva le attività di consulenza prestate. Secondo quanto scritto nel ricorso ciò avvalorava l'assenza di dolo.
Ma la Cassazione, con la sentenza 26617/2016, ha chiarito che è irrilevante che l'attività sia stata svolta attraverso la partecipazione ad una società fornitrice di servizi: “quel che rileva è che colui il quale ha offerto la prestazione professionale, diretta o mediata attraverso lo schermo societario, sia in possesso dei requisiti professionali idonei ad assicurarle”.
Inoltre, alla richiamata mancanza di chiarezza della norma citata circa gli atti riservati ai dottori commercialisti ed agli esperti contabili, la Corte risponde che: “proprio la più compiuta individuazione contenuta in tale provvedimento degli atti riservati ai dottori commercialisti ed agli esperti contabili, attraverso una distinzione tra gli atti consentiti alle due categorie professionali” dà conto “in maniera analitica delle attribuzioni proprie di entrambe le attività. Cosicché il presupposto formale su cui è fondato il ricorso - sostanziale equiparazione delle attività consentite nelle due normative succedutesi nel tempo in materia - risulta testualmente smentita dall'interpretazione che di tali disposizioni ha operato la pronuncia della Corte di merito”.
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