La Corte di Cassazione, sezione lavoro, con l’ordinanza del 22 novembre 2017, depositata il 19 febbraio 2018, n. 3977, ha riconosciuto ad una dipendente pubblica il risarcimento, a titolo di straining, a causa delle azioni ostili e discriminatorie poste in essere dal datore di lavoro (in questo caso dirigente scolastico) anche se sporadiche, specificando che lo straining rappresenta una forma di attenuata di mobbing che non richiede il requisito della continuità.
La Suprema Corte, nel caso de quo, ha respinto il ricorso del Ministero dell'Istruzione nei confronti di una insegnante che – ritenendosi demansionata e vessata – aveva agito in giudizio rivendicando il diritto al risarcimento del danno biologico subìto a causa di tale situazione.
Già in Corte d'Appello e in primo grado di giudizio, la condotta lamentata dalla ricorrente, seppure non propriamente mobbizzante, era stata considerata un'ipotesi di straining, ossia di “stress forzato, deliberatamente inflitto alla vittima dal superiore gerarchico con un obiettivo discriminatorio”.
La Corte di Cassazione, confermando le conclusioni degli altri gradi di giudizio, ha affermato che “lo straining altro non è che una forma attenuata di mobbing, nella quale non si riscontra il carattere della continuità delle azioni vessatorie”, pertanto, va riconosciuto al dipendente il diritto al risarcimento in quanto le azioni vessatorie danneggiano l'integrità psico-fisica del lavoratore, giustificando la pretesa risarcitoria sull'art. 2087 del codice civile, che tutela il diritto alla salute, la dignità umana e i diritti inviolabili della persona, garantiti dagli artt. 32, 41 e 2 della Costituzione.
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