La suprema Corte ha affrontato, con la sentenza n. 28289 del 19 luglio 2022, l’importante e, purtroppo, sempre attuale problema dell’intermediazione illecita di manodopera e dello sfruttamento del lavoro.
La questione prende le mosse da un ricorso promosso da un imputato condannato dal tribunale di Bari al divieto di esercizio di incarichi direttivi delle imprese perché accusato di avere reclutato alcuni lavoratori stranieri, approfittando del loro stato di bisogno, per utilizzarli nel lavoro agricolo.
Secondo l’ordinanza in questione, tale condotta integra il reato di cui all'articolo 603 bis del codice penale, a norma del quale sussiste intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro quando viene reclutata manodopera destinata al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori.
Introdotto con decretazione di urgenza nel 2011 allo scopo di arginare il dilagante fenomeno del caporalato in agricoltura, l’articolo in oggetto dispone che, salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da 500 a 1.000 euro per ciascun lavoratore reclutato, chiunque:
Costituisce indice di sfruttamento la sussistenza di una o più delle seguenti condizioni:
La suprema Corte - con sentenza n. 28289/2022 - non ritiene sussistano le condizioni sopra esposte in quanto la conoscenza dello stato di bisogno del lavoratore non è di per sé indicativa di sfruttamento dello stesso.
Infatti, la ratio dell’art. 603 bis risiede non tanto nella volontà di punire lo sfruttamento in sé, quanto di colpire l’approfittamento dello stato di bisogno del lavoratore, che può essere desunto sia da condizioni economiche gravemente sproporzionate, sia da altri fattori tali da indurre il lavoratore, indebolito nella propria capacità contrattuale, ad accettare condizioni cui altrimenti non avrebbe acconsentito.
Deve quindi, prosegue la suprema Corte, ricorrere l'abuso della condizione esistenziale del lavoratore cui corrisponde un vantaggio concreto per il datore di lavoro.
Nel caso di specie, infine, la Cassazione rileva che il provvedimento impugnato, identificando lo stato di bisogno dei lavoratori unicamente nel fatto che gli stessi risiedessero preso un centro di accoglienza, è carente nella motivazione in quanto tale circostanza integra certamente una situazione di disagio personale ma non coincide di per sé con lo stato di bisogno.
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