Tizio è addetto al controllo della qualità dei se rvizi erogati dall’impresa Alfa e nell’esercizio della propria attività viene comandato da quest’ultima a recarsi presso le imprese partner, per verificare la funzionalità dei servizi stessi. Il report dei risultati viene presentato da Tizio ad Alfa ogni quindici giorni. Alla fine di ogni mese Alfa commisura la retribuzione di Tizio in ragione dell’orario contrattuale, non computando il tempo impiegato dal dipendente per raggiungere le diverse località. Tizio si rivolge all’Ispettorato chiedendo l’adozione di diffida accertativa per lavoro straordinario, maturato a causa del tempo occorso per effettuare gli spostamenti e i viaggi nelle sede dei partner. È legittima la richiesta di Tizio?
Premessa
Sebbene le dinamiche del mercato si dirigano sempre più verso l’implementazione di strumenti che valorizzino il raggiungimento degli obiettivi come prevalente parametro per la determinazione della prestazione e della retribuzione, tuttora (e purtroppo) resta predominante la logica fordista, secondo la quale l’orario di lavoro costituisce misura e criterio di commisurazione qualitativa e quantitativa dell’attività di lavoro e della retribuzione. In tale sistema, peraltro caratterizzato dalla mancanza di sedi fisse di lavoro, ci si chiede se i tempi di spostamento possano o meno essere conteggiati come orario di lavoro.
La definizione di orario di lavoro
L’art. 1, comma 2 lett. a) del D.lgs. n. 66/2003 definisce l’orario di lavoro come “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni”. Dalla disposizione normativa si evince che affinché la prestazione sia qualificabile come lavorativa, in quanto rientrante nell’orario di lavoro, occorre che il lavoratore metta a disposizione del datore di lavoro le proprie energie lavorative per esercitare un’attività eterodiretta e assoggetta alla disciplina d’impresa. In sostanza per valutare se un certo periodo di servizio rientri o meno nella nozione di orario di lavoro, occorre stabilire se il lavoratore sia o meno obbligato dalla parte datoriale a eseguire in favore di costui l’opera demandata. L’assunto acquista rilevanza laddove l’attività lavorativa venga spesso svolta in località differenti dalla sede legale o amministrativa dell’impresa, perché in tale ipotesi sorge il problema di verificare se gli spostamenti e i viaggi possano o meno reputarsi orario di lavoro.
Il tempo di viaggio non è orario di lavoro, salvo che…
L’art. 8 D.lgs. n. 66/2003 nel richiamare l’art. 5 del R.D. n. 1955/1923 e l’art. 4 del R.D. n. 1956/1923 ha confermato l’esclusione dall’orario di lavoro del tempo impiegato per recarsi al lavoro, stabilendo così che lo stesso non potrebbe essere considerato ai fini della retribuzione. Ciò non toglie che ricorrano fattispecie particolari in cui anche lo spostamento può essere considerato prestazione di lavoro e ciò si verifica allorché il viaggio risulti funzionale e connaturato alla prestazione stessa, ovvero qualora la materia venga diversamente disciplinata dalla contrattazione collettiva.
La prassi amministrativa
Il concetto è stato affermato dallo stesso Ministero del Lavoro che, con risposta a interpello n. 15 del 2010, ha richiamato la regola di cui all’art. 8 del D.lgs. n. 66 cit., e ha ritenuto che “il tempo impiegato dal lavoratore per raggiungere la sede di lavoro durante la trasferta non costituisce esplicazione dell’attività lavorativa ed il disagio che deriva al lavoratore è assorbito dall’indennità di trasferta”. Tuttavia la stessa risposta non solo prevede che la contrattazione collettiva ha il potere di derogare alle regole, ma soprattutto valorizza in funzione derogatoria il concetto di funzionalità della prestazione accessoria di lavoro, atteso in tal senso il richiamo alla sentenza del 22/03/2004, n. 5701 resa da Cass. civ. Sez. lavoro. Si tratta allora di comprendere quando ricorre tale funzionalità, applicando i principi emersi proprio in sede giurisprudenziale.
L’orientamento della giurisprudenza di legittimità
La giurisprudenza, antecedentemente all’emanazione del D.lgs. n. 66 cit., ha più volte affermato il principio in base al quale il tempo impiegato per raggiungere il luogo di effettuazione della prestazione non deve essere considerato attività lavorativa vera e propria, salvo che lo stesso sia connaturato alla prestazione di lavoro. Secondo questa prospettiva, tale connotazione non ricorrerebbe allorché la collocazione del luogo della prestazione si trovi all’esterno dell’azienda e dislocata in differenti località. Il disagio dovuto agli spostamenti troverebbe unicamente la propria compensazione non nell’orario di lavoro ma nell’indennità di trasferta.
Secondo gli scriventi l’assunto non è chiaro, perché non precisa in che cosa consisterebbe il concetto di attività connaturata. Chiarimenti in tal senso sono stati forniti dalla giurisprudenza successiva sempre per fattispecie sorte antecedentemente all’entrata in vigore del D.lgs. n. 66 cit., ma con arresto che allo stato può definirsi ius receptum al punto che recentemente è stato ribadito dalla stessa S.C., la quale ha osservato che tale principio non può ritenersi superato neppure per effetto dell’entrata in vigore del D.lgs. n. 66 cit..
In particolare l’orientamento de quo qualifica come attività preparatorie connaturate alla prestazione quelle che risultano eterodirette dal datore di lavoro. Pertanto il discrimine nelle attività costituenti la diligenza preparatoria sarebbe costituito dalla circostanza che le stesse si svolgano con piena libertà del lavoratore oppure secondo le disposizioni (e quindi con la eterodirezione) del datore di lavoro, poiché solo in quest’ultima evenienza potrebbe parlarsi di attività di lavoro e dunque di orario di lavoro. La prospettiva che attribuisce rilevanza al criterio di eterodirezione muove dal presupposto per cui “nel rapporto di lavoro deve distinguersi una fase finale, che soddisfa direttamente l’interesse del datore di lavoro, ed una fase preparatoria, relativa a prestazioni od attività accessorie e strumentali, da eseguire nell’ambito della disciplina d’impresa (art. 2104 c.c., comma 2) ed autonomamente esigibili dal datore di lavoro, il quale ad esempio può rifiutare la prestazione finale in difetto di quella preparatoria”. In quest’ultima evenienza l’attività non potrebbe non essere conteggiata nell’orario di lavoro proprio perché risulta resa in applicazione della disciplina d’impresa.
Viaggio funzionale alla prestazione lavorativa
In base agli insegnamenti della S.C. il viaggio può definirsi funzionale quando è eterodiretto dal datore di lavoro, al quale il dipendente deve comunicare tempestivamente le eventuali variazioni al programma lavorativo stabilito. Si parla all’uopo di prestazione predeterminata oggettivamente dal datore di lavoro e che, conseguentemente, sottrae al lavoratore un potere discrezionale di scelta. Proprio l’eterodirezione dello svolgimento dell’attività comporta per corollario che l’intero viaggio occorrente per raggiungere la località di missione costituisce requisito indefettibile di un’unica e inscindibile prestazione di lavoro, oggetto di una altrettanto unitaria attività. In sostanza, le attività anteriori al raggiungimento del posto di lavoro si collocano al di fuori dell’orario di lavoro, a meno che il datore non intervenga autoritativamente nel disciplinare le stesse ed il lavoratore si sottoponga al potere direttivo dell’imprenditore, per cui cominci la prestazione e sia a disposizione dello stesso, assoggettato al potere direttivo e gerarchico del medesimo. In tale modo l’intero tragitto di percorrenza per raggiungere le località di lavoro diverse dalla sede ordinaria di servizio viene conteggiato come orario di lavoro quando costituisce operazione, propedeutica, accessoria e strumentale all’attività e correlativamente risulti di carattere strettamente necessario, obbligatorio e funzionale alla prestazione medesima. Oltre al criterio della funzionalità della prestazione la deroga al regime dell’art. 8 del D.lgs. n. 66 cit. può risultare dalla contrattazione collettiva.
Segnatamente il comma 3 della citata disposizione ha natura dispositiva, perché fa espressamente salve le “diverse disposizioni dei contratti collettivi”, con la conseguenza che la norma è destinata a cedere a fronte di un’eventuale disciplina collettiva che ricomprenda nell’orario di lavoro le operazioni preparatorie e/o integrative, quali sono i tempi di percorrenza degli spostamenti. L’assunto postula una compiuta ricognizione della disciplina collettiva, nella quale occorrerebbe rinvenire una specifica regola che disciplini i tempi di viaggio necessari per l’espletamento delle prestazioni di lavoro.
Il caso concreto
Nei fatti risulta che Tizio è addetto al controllo della qualità dei servizi erogati dall’impresa Alfa e nell’esercizio della propria attività viene comandato da quest’ultima a recarsi presso le imprese partner, per verificare lo stato lo standard qualitativo dei servizi stessi. Il report dei risultati viene presentato da Tizio ad Alfa ogni quindici giorni. Alla fine di ogni mese Alfa commisura la retribuzione di Tizio in ragione dell’orario contrattuale, non computando il tempo impiegato dal dipendente per raggiungere le diverse località e remunerando il disagio patito per le continue trasferte mediante indennità di missione. Tizio si è rivolto all’Ispettorato chiedendo l’adozione di diffida accertativa per lavoro straordinario, maturato a causa del tempo occorso per effettuare gli spostamenti e i viaggi nelle sede dei partner.
Secondo il sommesso avviso degli scriventi, affinché i tempi di viaggio impiegati da Tizio per recarsi dai partner possano ritenersi tempi di lavoro, occorre appurare se gli stessi siano connaturati e strumentali rispetto a una prestazione di lavoro complessivamente eterodiretta dal datore di lavoro. Sul punto si è dell’idea che tale eterodirezione sussista qualora il datore detti tempi e modi di un’attività che ontologicamente è contrassegnata da continui spostamenti e che deve obbligatoriamente e necessariamente svolgersi fuori sede. In tal caso appare chiaro che sin dalla fase iniziale del viaggio e per tutta la durata dello stesso il lavoratore mette a disposizione del datore di lavoro le proprie energie lavorative e il viaggio, unitariamente considerato, costituisce tempo dedicato dal lavoratore stesso ad una specifica attività preparatoria, che obbligatoriamente gli viene ordinata dalla parte datoriale in funzione direttiva dell’attività finale. Se il viaggio, insomma, non rientra tra le attività libere e discrezionali del lavoratore, allora sussiste quella eterodirezione datoriale che porta a ritenere la relativa durata nel concetto di effettiva prestazione di lavoro. Quanto all’indennità di trasferta, se è vero che quest’ultima trova la propria causa nel sopperire al disagio psico-fisico del lavoratore in missione, è altrettanto vero che tale indennità non elide, ma semmai si aggiunge, alla retribuzione commisurata sull’orario di lavoro. Anzi, proprio la circostanza che al lavoratore venga riconosciuta detta indennità, rappresenta inequivocabile conferma che il tempo di viaggio costituisce prestazione di lavoro, che quindi andrebbe considerata come orario di lavoro e che pertanto andrebbe debitamente retribuita mediante straordinario. Sarebbe in definitiva auspicabile che all’esito dei procedimenti ispettivi, ove venga raggiunta la prova oggettiva delle circostanze addotte da Tizio, il personale ispettivo si determini nel senso di adottare i provvedimenti di diffida accertativa.
NOTE
i Cass. civ. Sez. lavoro, 01-09-1997, n. 8275.
ii Cass. civ. Sez. lavoro, 21-10-2003, n. 15734; Cass. civ. Sez. lavoro, 08-09-2006, n. 19273; Cass. civ. Sez. lavoro, Sent. 10-09-2010, n. 19358.
iii Cass. civ. Sez. lavoro, Sent. 07-06-2012, n. 9215; e ancor più recentemente cfr. Cass. civ. Sez. lavoro, 15/01/2014, n. 692.
iv Cass. Civ. Sez lavoro, 15-01-2014, n. 692.
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