Esclusa la punibilità del datore di lavoro per omesse ritenute previdenziali in caso di crisi di liquidità, ossia per “causa di forza maggiore”. Quindi, l’azienda che non versa i contributi previdenziali all’INPS, per suo conto e per conto del lavoratore, non è punibile se prova di aver esperito ogni azione per adempiere all’obbligo. In caso contrario, scatta la sanzione penale che prevede la reclusione fino a tre anni, oltre a una multa fino a 1.032 euro, se la violazione riguarda ritenute previdenziali e assistenziali di importo superiore a 10.000 euro annui. Si ricorda, a tal proposito, che se il datore di lavoro provvede entro tre mesi dalla contestazione o dalla notifica dell’accertamento della violazione, non si applica la sanzione amministrativa (ma solo per le omissioni inferiori a 10.000 euro annui).
A stabilirlo è la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 2565 del 21 gennaio 2019.
Il datore di lavoro, all’atto della consegna della busta paga ai propri dipendenti, deve trattenere – a norma di legge – una quota prestabilita sulla retribuzione lorda a titolo di contributo previdenziale (che per la generalità dei lavoratori è pari al 9,19%). Mentre i contributi previdenziali, a carico del datore di lavoro, devono essere versati – insieme a quelli trattenuti al lavoratore – con mod. F24 entro il 16 di ogni mese (se il termine cade in un giorno festivo, slitta al primo giorno utile successivo).
Detto ciò, nella sentenza in commento gli ermellini ricordano espressamente che la sanzione per omesse ritenute previdenziali si verifica ogni qualvolta il datore di lavoro manifesti la volontà di non versare le ritenute all’INPS, essendo dunque punibile a titolo di dolo generico.
Tuttavia, esistono dei casi specifici nei quali il datore di lavoro può essere escluso dalla condotta illecita, quindi sottratto dalle sanzioni su illustrate. Ciò è possibile, come nel caso di specie della sentenza, quando si ha una forte “crisi di liquidità”. In tale ipotesi, si esclude la colpevolezza del datore di lavoro inadempiente, il quale deve provare di non essere colpevole della crisi economica che improvvisamente ha investito la sua attività, e che la stessa non poteva essere fronteggiata diversamente.
In altri termini, deve essere provato che il datore di lavoro non poteva reperire le risorse finanziarie necessarie per adempiere all’obbligo contributivo, nonostante avesse provato a fronteggiare la crisi con ogni mezzo possibile, anche sfavorevole al suo patrimonio personale. Solo in questo modo la Corte di Cassazione ammette la non colpevolezza dell’inadempimento e la conseguente non punibilità del datore di lavoro.
Nel caso di specie, poiché il datore di lavoro non ha mai provato di aver attinto al proprio patrimonio personale per far fronte alla crisi di liquidità, e di assolvere quindi ai debiti contributivi, la Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso e condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Infine, i giudici cassazionisti rammentano come la prova materiale della corresponsione della retribuzione, da cui consegue l’obbligo contributivo nelle casse dell’INPS, può validamente essere tratta dai DM10, i quali attestano le retribuzioni corrisposte, e in questo caso l’assenza del versamento contributivo.
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