Il parlamentare che ha esercitato pressioni in una gara d’appalto, non può essere condannato per corruzione se non svolge alcun ruolo nella gara medesima e se il comportamento oggetto di mercimonio non rientri nella sfera di competenza del suo ufficio.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, sesta sezione penale, accogliendo il ricorso di un parlamentare avverso la sua condanna, in sede di appello, per i delitti di concorso in corruzione ed in turbata libertà degli incanti relativamente ad una gara d’appalto. I fatti ascritti all’imputato, in particolare, consistevano nell’aver promesso di esercitare pressioni (in qualità sia di parlamentare che di esponente di un partito politico) su alcuni manager e personaggi istituzionali, al fine di ottenere una determinata aggiudicazione dell’appalto, ricevendo, quale compenso di detto impegno, un ingente somma di denaro da parte dell’aggiudicatario.
Detti fatti, pur ammessi dall'imputato, non integrano – a parere della Corte Suprema - il delitto di corruzione, non avendo il parlamentare in questione, alcuno specifico ruolo nelle gare d’appalto e non rientrando l’oggetto dell’appalto stesso nella sua sfera di competenza funzionale.
Invero, secondo un costante orientamento di legittimità, il delitto di corruzione appartiene alla categoria dei reati “propri funzionali”, poiché elemento necessario di tipicità della fattispecie è che l’atto o il comportamento oggetto di mercimonio rientrino nelle competenze o nella sfera di influenza dell’ufficio al quale appartiene il soggetto corrotto, nel senso che occorre che siano espressione, diretta o indiretta, della pubblica funzione da quest’ultimo esercitata.
Conseguentemente non ricorre delitto di corruzione passiva se l’intervento del pubblico ufficiale in esecuzione dell’accordo illecito non comporti l’attivazione di poteri istituzionali propri del suo ufficio o non sia in qualche maniera a questi ricollegabile; mentre sia piuttosto destinato – come nel caso de quo – ad incidere nelle sfere di attribuzione di pubblici ufficiali terzi rispetto ai quali l’agente risulti assolutamente carente di potere funzionale.
Ciò detto – conclude la Corte con sentenza n. 23355 del 6 giugno 2016 – le condotte sopra descritte possono tuttalpiù rientrare nel paradigma del “traffico di influenze illecite” di cui all'art. 346 bis c.p., all'epoca dei fatti contestati, tuttavia, non ancora previsto nel nostro ordinamento come reato.
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