Mobbing: va provato il comportamento ostile

Pubblicato il 25 giugno 2020

La Cassazione, Sezione lavoro, si è nuovamente pronunciata in materia di mobbing attraverso l’ordinanza n. 12364 del 23 giugno 2020, ribadendo il consolidato orientamento della Corte in ordine ai presupposti per l’ottenimento della tutela risarcitoria, con riferimento anche all’onere probatorio.

Nel caso di specie, un agente di polizia municipale adiva il Tribunale per ottenere la condanna del Comune e dei suoi superiori al risarcimento di presunti danni da mobbing, sostanziatisi in una “vera e propria persecuzione maniacale” manifestatasi attraverso una generale intolleranza, controlli troppo assidui, iniziative disciplinari pretestuose e condotte eccessivamente aggressive.

La Corte investita della questione, nel dichiarare inammissibile il ricorso poiché ricollegava il vizio di motivazione all’erronea valutazione delle prove, attività sottratta al sindacato di legittimità, ribadisce i principi che informano la materia, affermando la correttezza in diritto della motivazione della Corte territoriale.

Presupposti e onere probatorio

Ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo, ribadisce la Cassazione, devono ricorrere:

  1. una serie di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o leciti se considerati singolarmente, posti in essere con intento vessatorio in modo sistematico e prolungato nel tempo, da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi;
  2. l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente;
  3. il nesso eziologico tra le condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità;
  4. l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi.

Affinché possa ottenersi una condanna risarcitoria, inoltre, l’onere probatorio incombe sul prestatore di lavoro e, nel caso di specie, la Corte di Appello aveva riformato la sentenza del Tribunale ritenendo che le risultanze istruttorie non confermassero i fatti posti a sostegno della domanda.

In particolare, evidenziava che quasi tutte le prove testimoniali deponessero per l’insussistenza di comportamenti di carattere persecutorio. Di contro, invece, risultava dimostrato che il superiore gerarchico aveva agito nell’ambito dei poteri conferitigli e che le contestate violazioni degli ordini di servizio da parte della ricorrente, soprattutto con riferimento al mancato rispetto degli orari di lavoro, non erano state pretestuose.

La Cassazione, pertanto, conclude evidenziando la correttezza in diritto della motivazione della Corte di Appello secondo la quale la ricorrente non aveva fornito una prova sufficiente di un comportamento, posto in essere ai suoi danni dai superiori gerarchici, intenzionalmente ed ingiustificatamente ostile, avente le caratteristiche oggettive della prevaricazione e della vessatorietà, connotato da plurime condotte emulative e pretestuose, dovendosi considerare irrilevanti a tal fine le mere posizioni divergenti e/o conflittuali connesse alle ordinarie dinamiche relazionali all’interno dell’ambiente lavorativo.

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