Minaccia al datore/amante E’ estorsione

Pubblicato il 22 novembre 2016

Commette estorsione e non violenza privata, la donna che minaccia il proprio datore di lavoro di rivelare alla di lui moglie la loro relazione sentimentale, così estorcendogli 3 mila euro (nella specie non riconducibili a crediti da prestazioni lavorative).

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, seconda sezione penale, accogliendo il ricorso del Pubblico ministero, avverso la pronuncia con cui la Corte d’appello aveva riqualificato la condotta dell’amante da estorsione a violenza privata.

Premette il Supremo Collegio – circa la diagnosi differenziale tra estorsione e violenza privata – che è configurabile estorsione (e non violenza privata) nel caso in cui l’agente, al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, faccia uso della violenza o della minaccia per costringere il soggetto passivo a fare od omettere qualcosa che gli procuri un danno economico.

Pretesa denaro non riconducibile a crediti da lavoro

Orbene nel caso di specie – perseguono gli ermellini - la Corte d’Appello, pur ribadendo l’efficacia coercitiva dell’azione minatoria posta in essere dall’imputata, non ha ritenuto provato l’elemento dell’ingiustizia del danno, in ragione del fatto che la donna aveva lavorato per l’offeso, sicché era in dubbio la riconducibilità della pretesa economica ad un credito da lavoro.

Ma detto assunto – conclude la Cassazione con sentenza n. 49315 del 21 novembre 2016 – contrasta con alcune precise rilevazioni processuali e, segnatamente: a) con la circostanza che la donna aveva lavorato per il proprio amante per sole due settimane, ovvero un periodo di tempo incompatibile con la somma di denaro richiesta; b) con il fatto che la stessa imputata avesse confessato di aver minacciato il proprio datore, senza far alcun riferimento a pregressi crediti di lavoro.

 

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