In caso di prestazioni professionali eseguite da un avvocato a favore della propria moglie (ugualmente avvocato), la donna non è tenuta a restituire al marito quanto percepito da terzi come corrispettivo di dette prestazioni. Tra i coniugi opera difatti il principio di gratuità delle prestazioni, ancorché professionali, indipendentemente dal regime di comunione o separazione da essi prescelto.
Lo ha confermato la Corte di Cassazione, seconda sezione civile, in relazione ad controversia tra una coppia di avvocati (nel frattempo separatisi), accogliendo le ragioni della moglie, che si era opposta al decreto ingiuntivo intimatole dal marito. Sosteneva in particolare la ricorrente, che il compenso preteso dal marito, contitolare dello studio professionale associato, per l’opera prestata in suo favore in una pratica di recupero crediti, non gli era dovuto. E ciò, considerato il rapporto di coniugio allora in essere tra i due, nonché il fatto che il marito avesse sin dall’inizio rinunciato ad ogni compenso nei confronti della moglie.
Argomentazione, questa, accolta nel merito e poi confermata in Cassazione, con sentenza n. 24438 del 30 novembre 2016. Secondo i giudici, difatti, la presunzione di gratuità delle prestazioni non è stata nella specie superata da idonea prova contraria.
Anzi, l’esistenza di un rapporto associativo, oltre che di coniugio, e l’aver il marito atteso la causa di separazione personale per rivendicare il pagamento della prestazione professionale, sono circostanze che depongono tutte a favore della originaria gratuità della prestazione medesima
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