Affinché possa dirsi legittimo il licenziamento del dipendente che rifiuti di trasformare il rapporto di lavoro da tempo pieno a part time, il datore di lavoro è tenuto a dimostrare che sussistono effettive esigenze economico - organizzative in base alle quali la prestazione non può essere mantenuta a tempo pieno, ma solo con orario ridotto, nonché il nesso causale tra queste e il recesso.
Di per sé, infatti, il rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale, o viceversa, non può costituire giustificato motivo di licenziamento.
Questo per come espressamente disposto dall’art. 8, comma 1, del D. Lgs. n. 81/2015.
Tale previsione, tuttavia, se esclude che il diniego alla trasformazione del rapporto possa costituire giustificato motivo di licenziamento, non preclude la facoltà di recesso per motivo oggettivo nel caso in cui il dipendente dica no al part time.
Ciò comporta, tuttavia, una rimodulazione del giustificato motivo oggettivo e dell’onere di prova posto a carico di parte datoriale.
Nella predetta ipotesi, infatti, occorre che il datore di lavoro dimostri:
Il rifiuto opposto dal lavoratore, così, diventa una componente del più ampio onere probatorio posto a carico del datore, che comprende le ragioni economiche da cui deriva l’impossibilità di continuare a utilizzare la prestazione a tempo pieno e l’offerta del part time rifiutata.
Il licenziamento, quindi, perché sia legittimo, non deve essere intimato a causa del rifiuto ma a causa della impossibilità di utilizzo della prestazione a tempo pieno e del rifiuto di trasformazione del rapporto in part time.
Questo non esclude che, in linea generale, il licenziamento possa costituire una ritorsione rispetto al rifiuto opposto dal dipendente.
Di conseguenza, affinché possa affermarsi la nullità del licenziamento occorre che l'intento ritorsivo datoriale abbia avuto efficacia determinante esclusiva, con onere probatorio che ricade sul lavoratore e che può essere assolto anche mediante presunzioni.
Sono i principi richiamati dalla Corte di cassazione, nel testo dell'ordinanza n. 12244 depositata il 9 maggio 2023.
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