Lavoratore mente sull’incidente di lavoro? Favoreggiamento

Pubblicato il 24 luglio 2020

La Corte di cassazione ha confermato la condanna per il reato di favoreggiamento a carico di un imputato che aveva mentito alla Polizia giudiziaria sulle modalità di un infortunio sul lavoro accaduto ad un collega, in sua presenza.

All’uomo era stato contestato di aver reso dichiarazioni potenzialmente utili a sviare le indagini che si svolgevano sul sinistro nei confronti del responsabile della sicurezza, indagato per l’ipotesi di reato di lesioni personali colpose.

I giudici di merito lo avevano ritenuto responsabile del reato di cui all’art. 378 c.p. e per questo il lavoratore aveva adito la Corte di cassazione, adducendo due motivi di impugnazione.

Favoreggiamento. Il pericolo di licenziamento non giustifica le false dichiarazioni

L’imputato aveva lamentato un vizio di motivazione e violazione di legge sia con riferimento alla ritenuta configurabilità del favoreggiamento sia rispetto alla giudicata non configurabilità dell’esimente di cui all’art. 384 c.p. (necessità di salvare sé o un prossimo congiunto da un danno grave e inevitabile alla libertà e all'onore).

Riguardo a quest’ultimo punto, in particolare, il ricorrente aveva giustificato le sue mendaci dichiarazioni alla luce di concrete prospettive di licenziamento che avrebbe potuto subire e della necessità di perseguire il proprio diritto di difesa.

Cassazione: ricorso inammissibile, condanna penale confermata

La Suprema corte, con sentenza n. 22253 del 23 luglio 2020, ha giudicato inammissibile il ricorso del deducente, respingendo entrambi i motivi di doglianza.

Nello specifico, la Sesta sezione penale ha rilevato che il ricorrente, più che eccepire un travisamento probatorio, aveva sollecitato un nuovo esame delle prove attraverso evocati vizi della motivazione che, in realtà, surrettiziamente, miravano ad una diversa ed alternativa valutazione del compendio di riferimento.

Rispetto, poi, all’invocata esimente, l’imputato era entrato in contrasto logico con la difesa dallo stesso prospettata in primo grado, volta a negare i fatti a sostegno del contestato favoreggiamento.

Inoltre – come correttamente segnalato dai giudici di gravame - il pericolo “di venire licenziato se avesse detto la verità”, addotto dal ricorrente durante il giudizio di appello, non rispondeva ad una concreta dimostrazione in punto di fatto ma più ad una suggestione logica, peraltro subito smentita dalla conferma delle dichiarazioni mendaci che avevano concretizzato il favoreggiamento, ribadite nel corso del processo anche dopo che era stato licenziato da tempo e pur potendo avvalersi della facoltà di ritrattazione.

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