La Cassazione sulla conversione dei rapporti di lavoro e il divieto di cumulo delle pensioni

Pubblicato il 28 marzo 2012 Due recenti sentenze della Corte di Cassazione chiariscono alcuni aspetti relativi alla trasformazione dei contratti di lavoro alla luce delle disposizioni introdotte dalla Legge n. 183/2010 e all’abolizione del divieto di cumulo previsto dalla Legge 289/2002.

La sentenza n. 4909 del 27 marzo 2012, della Sezione lavoro, accoglie il ricorso incidentale presentato da un dipendente delle poste che, dopo il terzo contratto a tempo determinato, aveva ottenuto la conversione del contratto a tempo indeterminato e stabilisce che il lavoratore ha comunque diritto all’indennità sancita dall'articolo 32 del Collegato lavoro anche se la causa era stata avviata prima dell’entrata in vigore delle nuove norme.

Ricorda la Corte che l'articolo 32, comma 5, del Collegato lavoro prevede che nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un'indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell'art. 8 della legge 15/7/66 n. 604. Il successivo comma 7 prevede, inoltre, che tale disposizione trova applicazione anche ai giudizi pendenti alla data della vigore della legge.

Con la sentenza, sempre depositata in data 27 marzo 2012, relativa al ricorso 25647/2009, la Suprema Corte, invece, ribadisce che al dipendente che trasforma il proprio rapporto di lavoro in part-time e percepisce un trattamento pensionistico ridotto, per effetto della prosecuzione del rapporto di lavoro, non può essere riconosciuta la pensione nella sua interezza, anche se è subentrata l'abolizione del divieto di cumulo previsto dalla legge 289/2002.

Si tratta, infatti, di un’eliminazione progressiva del suddetto divieto che è intercorsa negli anni, fino alla effettiva emanazione dell’articolo 19 del decreto legge 112/2008, che ha definitivamente "liberalizzato" la materia. Pertanto, per la Corte, il carattere eccezionale della normativa non può essere derogato da norme successive aventi comunque valenza generale.
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