Il problema della congruità dei prezzi di trasferimento internazionali in caso di transazioni infragruppo è oggetto di attento dibattito, dal momento che spesso esso è causa di conflitti tra Stati con legislazioni tributarie differenti. Ogni Paese ha come obiettivo principale quello del controllo del meccanismo del transfer pricing proprio per evitare che esso venga usato dalle società appartenenti allo stesso gruppo come misura per minimizzare l’ammontare delle imposte da pagare sulle transazioni commerciali. L’applicazione alle transazioni infragruppo di prezzi al di sopra o al di sotto del loro valore nominale può, infatti, avere come scopo quello di ridurre l’imposizione fiscale complessiva del gruppo societario attraverso: il trasferimento di utili da territori a elevata fiscalità verso aree caratterizzate da una minore pressione fiscale; il trasferimento di componenti di reddito da società in utile a società con perdite pregresse.
Se dal punto di vista internazionale la problematica è stata affrontata da quasi tutti i Paesi con una normativa ad hoc che ha recepito il principio di valutazione a valore normale delle transazioni (Convenzione Ocse, articolo 9, paragrafo 1), non si può dire altrettanto della legislazione nazionale, che sull’argomento non è ancora chiara e definita anche con riferimento alle transazioni infragruppo effettuate tra imprese situate all’interno del territorio.
Nonostante il recente tentativo di aggiornamento della normativa italiana con la previsione di disposizioni antielusive ad hoc sul transfer price interno riferibile alle società che aderiscono al regime del consolidato nazionale, non esiste ancora una disciplina generale applicabile a tutte le possibili fattispecie elusive. Ciò aumenta la necessità di una regolamentazione puntuale sulla materia dato che il trasfer pricing non è solo un problema di evasione/elusione fiscale, ma una circostanza che condiziona le dinamiche commerciali del gruppo nell’ambito dei suoi scambi internazionali. Da qui, il rinvio al Codice di condotta dell’Unione europea del 2006 e alla richiamata convenzione Ocse del 1995 per tutte quelle imprese che vogliono mettersi al riparo da eventuali contestazioni, attraverso la tenuta di una specifica documentazione volontaria, finalizzata a facilitare la risoluzione di eventuali problemi di transfer pricing, in cui si evidenziano gli sforzi messi in atto dall’azienda nel nome del rispetto del principio di libera concorrenza.
Di recente, anche l’agenzia delle Entrate, con la circolare n. 20/2010, in relazione al discorso delle imprese di grandi dimensioni è intervenuta a far chiarezza su alcuni temi: operazioni di arbitraggio internazionale, riorganizzazione aziendale transnazionale e prezzi di trasferimento.
Proprio la definizione dei prezzi di trasferimento internazionali adottati nelle transazioni infragruppo è causa, spesso, di contenziosi tra imprese e autorità fiscali. A tal proposito, si ricorda che il nostro ordinamento contempla alcuni strumenti di prevenzione e risoluzione dei conflitti tra l’impresa e gli uffici del Fisco, tra cui si annovera anche il cosiddetto “ruling internazionale”.
La procedura in questione si perfeziona con la sottoscrizione di un accordo tra l’Amministrazione finanziaria e l’impresa con attività internazionale, che vincola entrambe le parti sulle questioni oggetto di accordo per il periodo d’imposta nel corso del quale l’accordo stesso è stato stipulato e per i due periodi d’imposta successivi. La finalità del ruling di standard internazionale, come chiarito dalla stessa Agenzia con bollettino dello scorso 21 aprile, è quella di favorire la collaborazione e il dialogo tra contribuenti e Amministrazione finanziaria, con l’intento di limitare l’eventuale contenzioso dall’esito incerto e, allo stesso tempo, attenuare il rischio di doppia imposizione internazionale. Il bollettino sul ruling del 2010 contiene indicazioni sulla procedura da seguire per presentare l’istanza e anche istruzioni per ciò che concerne l’istruttoria da parte degli uffici.
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