Indebiti retributivi e ritenute fiscali e previdenziali

Pubblicato il 13 maggio 2021

L’errata corresponsione di somme retributive in misura superiore rispetto alle spettanze contrattuali minime può essere oggetto di recupero da parte del datore di lavoro, che potrà effettuare una trattenuta evidenziandola sul Libro Unico del Lavoro. Il diritto del datore di lavoro alla restituzione delle somme trova, però, un limite oggettivo nella ricercabile volontà di derogare in melius alle disposizioni del contratto collettivo, dovendo – diversamente – dimostrare l’invalidità della volontà contrattuale dimostrata. Diversamente, nei casi di corresponsione di elementi retributivi in via continuativa e derivanti dall’errata applicazione di disposizioni legali o contrattuali, la somma rimarrà definitivamente acquisita dal prestatore di lavoro, salvo che, il datore di lavoro, non dimostri la riconducibilità ad un mero errore contabile riconoscibile dalla controparte.

In tutti i casi, la restituzione delle somme corrisposte in eccedenza verterà sull’importo netto indebitamente corrisposto al lavoratore, non potendo essere richiesti gli importi al lordo delle ritenute fiscali e previdenziali. 

Emolumenti continuativi ed indebito oggettivo

La corresponsione in via continuativa di somme non legate a particolari discipline del contratto di lavoro collettivo o individuale non sempre può essere oggetto di richiesta di restituzione degli indebiti pagamenti eseguiti.

Chiari, nella questione, sono gli interessi contrapposti in gioco: da un lato l’interesse del datore di lavoro al recupero delle somme indebitamente corrisposte per mero errore; dall’altro la tutela del lavoratore rispetto alla restituzione di somme percepite in buona fede.

L’interesse del datore di lavoro trova fondamento nell’art. 2033, Cod. Civile, secondo cui nel caso di pagamento di emolumenti superiori al dovuto si configurerebbe un indebito oggettivo con conseguente diritto di ripetere ciò che si è pagato. La prova dell’indebito oggettivo deve vertere sull’inesistenza di una legittima causa solvendi.

Tale possibilità va, però, contemperata rispetto alla specifica valutazione di consolidamento, in capo a percettori di una legittima posizione soggettiva in relazione alla corresponsione delle somme contestate, nonché dell’eventuale volontà del datore di lavoro di corrispondere una retribuzione superiore ai minimi contrattuali, realizzando, anche tacitamente, un volontà derogatoria in melius – accettata dal lavoratore – che, delle volte, non trovando conforto in una obbligazione, cioè essendo privo di solutionis causa, va ricercata nella volontà, espressa o tacita, del datore di lavoro di dar corso alla predetta volontà derogatoria.

Nell’ambito del rapporto di lavoro, tipico per la sua lunga durata, la corresponsione continuativa al lavoratore di una somma eccedente lo spettante in relazione al periodo di lavoro, non esclude, però, che il datore di lavoro voglia perseguire l’intento di premiare il lavoratore.

Le questioni qui menzionate, hanno spesso interessato la giurisprudenza.

Ad esempio, nel caso affrontato dalla Corte di Cassazione nella sentenza 13 settembre 2018, n. 22387, al lavoratore era stato attribuito un contributo mensile per le spese di viaggio in ragione del distacco dalla sede di Padova a quella di Vicenza, che era stato riconosciuto anche per un periodo successivo, di quasi quattro anni, dal termine della ragione della corresponsione, sicché il lavoratore adiva il tribunale per veder ricalcolato il trattamento di fine rapporto alla luce del detto contributo mensile.

La Corte d’Appello di Torino, riformulando la sentenza del giudice di prime cure, respingeva le richieste del lavoratore ed accoglieva la domanda riconvenzionale del datore di lavoro che richiedeva la restituzione degli indebiti pagamenti eseguiti. Secondo la ricostruzione del giudice di seconde cure, spettava al lavoratore dimostrare l’ulteriore sopravvenienza che giustificasse il titolo delle erogazioni.

In riforma alla sentenza d’appello, il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione. Secondo il giudizio degli Ermellini spetta al solvens che agisca per ripetizione di indebito dimostrare l’assenza di causa debendi, sicché qualora le erogazioni di cui si assume la natura indebita si inseriscono nell’ambito di un rapporto di durata esse assumono conformazione identica a quelle delle obbligazioni pecuniarie tipiche dello stesso. Invero, nell’ambito dei rapporti di durata la regola iuris deve adeguarsi rispetto agli affidamenti che si creano, necessariamente, all’interno del rapporto stesso. In tal senso, in conformità con i principi enunciati dalla Corte, la corresponsione continuativa di un assegno al dipendente è generalmente sufficiente a farlo considerare, salvo prova contraria, come elemento della retribuzione.    

Può, dunque, affermarsi che va presunta la natura retributiva di un reiterato e costante pagamento che si verifichi nell’ambito di un rapporto di lavoro, spettando al solvens dimostrare l’insussistenza di essa. Quindi, non potendo la dimostrazione che fare leva su elementi contrari rispetto all’esistenza del titolo, dovrebbe provarsi l’effettivo e concreto verificarsi di un errore oppure l’insussistenza o l’inidoneità giuridica dei fatti che la stessa controparte in concreto abbia addotto quale fondamento della persistente attribuzione retributiva.

Sostanzialmente, dunque, il datore di lavoro che agisce in ripetizione dovrà provare non solo che il pagamento non era dovuto, ma anche che il pagamento non è riconducibile ad una volontà di attribuzione, sicché possa dimostrarsi l’incolpevolezza datoriale anche tramite le testimonianze di terzi che specifichino le modalità d’errore. Appare, dunque, fondamentale approfondire caso per caso la possibilità di richiedere l’indebita ripetizione delle somme, tenendo preliminarmente conto del tempo per il quale si sia protratto il comportamento del datore di lavoro, sia delle ulteriori cause che consentano di ricostruire la reale volontà datoriale.

Altresì, richiamando l’ulteriore sentenza della Corte di Cassazione n. 6681/2019, ove il datore richieda la restituzione delle somme erogate in eccesso rispetto alle retribuzioni minime previste dal contratto collettivo, non può limitarsi a provare che il suddetto contratto prevede, per le prestazioni svolte, retribuzioni inferiori, ma deve dimostrare che la maggiore retribuzione erogata è stata frutto di un errore essenziale e riconoscibile dall’altro contraente, ossia di un errore che presenti i requisiti di cui agli artt. 1429 e 1431 c.c.”.

Il trattamento previdenziale e fiscale degli indebiti

Nel caso in cui venga accertato il diritto del datore di lavoro al recupero degli emolumenti corrisposti in eccesso, lo stesso potrà avvenire nei limiti degli importi effettivamente percepiti dal lavoratore, restando esclusa la possibilità di ripetere gli importi al lordo di ritenute fiscali e previdenziali, mai entrate nella sfera patrimoniale del prestatore di lavoro dipendente.

Invero, ai sensi dell’art. 38, comma 1, Decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, “il soggetto che ha effettuato il versamento diretto può presentare all’intendente di finanza nella cui circoscrizione ha sede il cessionario presso la quale è stato eseguito il versamento, istanza di rimborso, entro il termine di decadenza di quarantotto mesi dalla data del versamento stesso, nel caso di errore materiale, duplicazione ed inesistenza totale o parziale dell’obbligo di versamento. Altresì, ai sensi del comma 2, del predetto riferimento normativo, “l’istanza di cui al primo comma può essere presentata anche dal percipiente delle somme assoggettate a ritenuta entro il termine decadenziale di quarantotto mesi dalla data in cui la ritenuta è stata operata”.

Ancorché il comma 2 estenda la legittimità della richiesta di rimborso anche al sostituito, conformemente ai recenti orientamenti giurisprudenziali di legittimità, ha diritto alla restituzione delle somme indebite, in via principale, il soggetto che ha effettuato il versamento.

Pertanto, atteso che il datore di lavoro versa al lavoratore la retribuzione al netto delle ritenute fiscali la restituzione dell’indebito troverà il limite rispetto a quanto effettivamente percepito dal prestatore stesso. Diversamente, si configurerebbe la possibilità del datore di lavoro di richiedere somme mai entrate nella disponibilità del lavoratore, con ingiustificato aggravio per lo stesso.

Il datore di lavoro, dovrà, dunque, formulare apposita istanza di rimborso all’Agenzia delle Entrate nei predetti casi di errore materiale, ma anche nei casi di inesistenza totale o parziale dell’obbligo di versamento.

Per quanto attiene le ritenute previdenziali, in ossequio alle disposizioni di cui all’art. 19, Legge 4 aprile 1952, n. 218, il responsabile del pagamento, anche per la quota a carico dei lavoratori trattenuta sulla retribuzione, è il datore di lavoro, sicché, nelle ipotesi di indebito contributivo, l’unico soggetto legittimato all’azione di ripetizione nei confronti dell’ente, anche riguardo alle predette quote, è proprio il datore di lavoro.

 

QUADRO NORMATIVO

Corte di Cassazione, sentenza 13 settembre 2018, n. 22387

Decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602

Legge 4 aprile 1952, n. 218

 

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