Il lavoratore che si infortuna durante la pausa caffè non ha diritto ad alcun indennizzo. Questo perché la sosta al bar non è legata in alcun modo ad esigenze lavorative. Di conseguenza, la caduta nel percorso per recarvisi non può essere indennizzata causa l’assenza del necessario nesso tra il rischio corso e l’attività svolta.
È quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 32473 dell’8 novembre 2021, accogliendo il ricorso dell’INAIL, che aveva perso i precedenti gradi di giudizio.
Il caso riguarda una signora - dipendente di una Procura della Repubblica - che aveva “spezzato” il suo orario continuato 9-15, con una sosta al bar insieme a due colleghe, timbrando regolarmente il cartellino in uscita. Durante il percorso era caduta ferendosi il polso, lesione per la quale chiedeva un’indennità di malattia e un indennizzo pari al 10% di danno permanente.
La richiesta è stata accolta dai giudici di merito, secondo i quali il rischio assunto dalla lavoratrice non era generico “permanendo un nesso eziologico con l’attività lavorativa”.
La Cassazione, però, ribalta la sentenza di secondo grado e dichiara il ricorso dell’INAIL ammissibile. Infatti, affermano gli ermellini, benché il desiderio del caffè sia apprezzabile, esclude che si tratti di un bisogno fisiologico che consentirebbe di affermare lo stretto legame con l’attività svolta.
Il nesso lavoro-rischio è indispensabile per ottenere un indennizzo slegato, invece, dall’esigenza che l’incidente sia avvenuto nel tempo e nel luogo della prestazione. Nello specifico la lavoratrice si è volontariamente esposta al pericolo, cedendo a un desiderio “certamente procrastinabile e non impellente”.
Pertanto, la lavoratrice non può affermare che la caduta sia avvenuta in “occasione di lavoro”.
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