Precisazioni di Cassazione in ordine al reato di illecita concorrenza con violenza o minaccia, di cui all’art. 513-bis cod. pen.
La fattispecie in oggetto, si rammenta, punisce con la reclusione da due a sei anni chi, nell'esercizio di un'attività commerciale, industriale o comunque produttiva, compie atti di concorrenza con violenza o minaccia.
Nel testo della sentenza n. 34214 del 2 dicembre 2020, la Seconda sezione penale della Suprema corte ha spiegato che nel paradigma del delitto in esame rientra la condotta dell'imprenditore che acquisisca posizioni dominanti di mercato in un determinato settore economico attraverso l'intervento dei clan che controllano le zone ove insistono gli esercizi commerciali destinatari delle sue prestazioni e delle condotte violente o minatorie, anche di carattere implicito o “ambientale”, che lo traducano in atto.
In tali ipotesi, si verifica un'alterazione dell'equilibrio del mercato e del principio della libera concorrenza: i rapporti commerciali che ne conseguono non sono frutto di una libera scelta dei singoli esercenti, bensì della minaccia, anche implicita, che scaturisce dalla notorietà dell'apparentamento dell'imprenditore con i clan di stampo mafioso, con danno anche di altri imprenditori operanti nel medesimo settore i cui prodotti finiscono per essere forzatamente boicottati.
Nel caso esaminato, la Corte di cassazione ha confermato la decisione con cui il Tribunale del riesame aveva riconosciuto la legittimità della custodia cautelare in carcere, disposta dal GIP nei confronti del ricorrente, in ordine al delitto di concorso in illecita concorrenza di cui all'art. 513-bis cod. pen., aggravato ex art. 416-bis.1 cod. pen.
In particolare, l'indagato era accusato di aver percepito, nella qualità di rappresentante di un clan di stampo mafioso, una somma periodica per la collocazione, da parte di un imprenditore, di slot machine presso pubblici esercizi insistenti nel territorio di influenza del predetto clan.
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