Firme falsificate e ritardata guarigione: licenziamento per giusta causa

Pubblicato il 04 ottobre 2021

Due nuove pronunce della Corte di cassazione in tema di licenziamento per giusta causa.

Le ultime decisioni con cui la Suprema corte si è pronunciata in materia di licenziamenti disciplinari hanno riguardato le vicende di due lavoratori, ai quali era stato rispettivamente contestato di avere, il primo, contraffatto le sottoscrizioni apposte dai clienti a moduli relativi alla definizione di operazioni finanziarie, e di aver tenuto, il secondo, durante il periodo di malattia, uno stile di vita non compatibile con la patologia che lo affliggeva, idoneo a pregiudicarne la guarigione.

Entrambe tali condotte sono state giudicate idonee a giustificare il recesso per giusta causa del datore di lavoro, per violazione dei generali doveri di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà.

Giusta causa di recesso per grave inadempimento

Nel primo caso – trattato nel testo dell’ordinanza n. 26710 del 1° ottobre 2021 – la Suprema corte ha respinto il ricorso di un lavoratore, specialista finanziario, contro la sentenza della Corte d’appello, confermativa del suo licenziamento disciplinare senza preavviso, intimatogli per violazioni dolose di leggi o regolamenti o dei doveri d’ufficio idonei ad arrecare forte pregiudizio alla società o a terzi, di gravità tale da non consentirne la prosecuzione.

In sede di merito, all’esito di un’ampia ricognizione del quadro probatorio, era emersa l’evidenza del compimento, da parte del dipendente, di gravi irregolarità, rilevate dal servizio ispettivo nel contesto dell’attività di vigilanza. Esse erano consistite nell’apposizione, da parte del ricorrente, di firme contraffatte di due clienti, nel corso di una serie di operazioni concernenti la revoca della richiesta di finanziamento del quinto dello stipendio e la sottoscrizione di quote.

Tale condotta di falsificazione – avevano rilevato i giudici di gravame - trasgrediva i doveri di correttezza inerenti all’obbligazione lavorativa, tradendo un atteggiamento spregiudicato, posto in essere in deliberata violazione delle regole che governano e strutturano il rapporto di lavoro subordinato, in consapevole rottura del rapporto di fiducia intercorrente con la parte datoriale e con la clientela.

Conclusioni, queste, ritenute corrette dagli Ermellini, secondo i quali la Corte territoriale si era attenuta ai principi giurisprudenziali affermati in materia di valutazione della legittimità del licenziamento disciplinare, procedendo a una ricognizione approfondita delle acquisizioni probatorie.

Il comportamento del lavoratore, in particolare, era stato legittimamente qualificato in termini di gravità, avendo arrecato un evidente vulnus ai principi di correttezza e buona fede posti a presidio della nascita e dell’adempimento delle obbligazioni che scandiscono il rapporto di lavoro.

La Corte distrettuale aveva operato una corretta sussunzione dei fatti descritti nell’ambito della categoria dell’inadempimento grave, rubricato all’art. 2119 c.c. per la violazione del complesso di regole in cui si sostanzia “la civiltà del lavoro in un determinato contesto storico-sociale”, ossia degli standards normativi che, rispetto a detti principi, si trovano in rapporto essenziale e integrativo.

Attività svolta in malattia ritarda la guarigione? Licenziato

Con ordinanza n. 26709 depositata nella medesima data del 1° ottobre 2021, la Corte di cassazione si è espressa sull’impugnazione di un altro lavoratore rispetto al licenziamento per giusta causa intimatogli per aver tenuto, durante la malattia, uno stile di vita che era stato giudicato non compatibile con la patologia che lo affliggeva – lombosciatalgia acuta – e, in ogni caso, idoneo a pregiudicarne la guarigione e, quindi, il rientro al lavoro.

Il convincimento a cui era pervenuta la Corte d’appello faceva leva sulle conclusioni rassegnate dal Ctu, il quale aveva dedotto che le attività svolte dal dipendente durante l’assenza per malattia avevano prolungato il periodo di guarigione clinica.

La Suprema corte ha confermato il giudizio reso nella decisione impugnata, in cui era stato rilevata la proporzionalità della sanzione del licenziamento in tronco rispetto alla condotta contestata.

A giudizio del Palazzaccio, infatti, i giudici di gravame avevano operato una corretta sussunzione della fattispecie in esame nella normativa relativa all’obbligo delle parti di attenersi ai doveri di correttezza e buona fede nell’attuazione del rapporto di lavoro.

In proposito, è stato richiamato quanto più volte affermato dalla Cassazione per le ipotesi di svolgimento di altra attività da parte del dipendente assente per malattia: tale svolgimento può giustificare il recesso del datore di lavoro sia nel caso in cui l’attività esterna sia di per sé sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, dimostrando una fraudolenta simulazione, sia laddove la medesima attività, valutata con giudizio ex ante in relazione alla patologia e alle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare il rientro in servizio.

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