È estorsione minacciare al lavoratore il licenziamento per applicare trattamenti inferiori a quelli stabiliti dal contratto e dalla legge

Pubblicato il 22 marzo 2013

Tizio, amministratore della società Gamma, assume Caio e Sempronio in nero al fine di conseguire una riduzione dei costi nella gestione dei relativi rapporti di lavoro. Caio e Sempronio vengono ovviamente retribuiti in nero e in misura inferiore a quanto previsto dal contratto di categoria. I dipendenti stanchi della situazione chiedono a Tizio di regolarizzare i rispettivi rapporti di lavoro al fine di conseguire corretti trattamenti normativi, retributivi e previdenziali. Tizio si oppone alla richiesta e ammonisce i dipendenti sul fatto che le condizioni imposte non sono negoziabili e che se fosse stata inoltrata nuovamente una simile istanza avrebbe intimato loro il licenziamento. Tizio e Caio si rivolgono così al personale ispettivo, al quale rappresentano la situazione e chiedono gli accertamenti di competenza. Quali conseguenze possono scaturire dalla condotta di Tizio?

 

 

Premessa

La determinazione del rapporto di lavoro spetta al datore di lavoro, che decide infatti tempi, modi e luoghi della prestazione di lavoro. Tradizionalmente tale concetto si esprime con la formula per cui il datore di lavoro esercita il potere direttivo, di controllo e disciplinare sul lavoratore. Senza entrare nel contenuto di ciascuna di tali facoltà è sufficiente semmai osservare che queste ultime sono comunque sottoposte a vincoli contrattuali e prima ancora di legge. Ciò significa evidentemente che l’esercizio dei poteri datoriali deve avvenire secundum ius e quindi secondo modalità che garantiscano la realizzazione dell’interesse imprenditoriale (che è un interesse di natura privata volto al profitto), senza ledere le situazioni soggettive del lavoratore. Al personale ispettivo è demandato il compito di verificare se l’esercizio del potere datoriale si sia svolto in base ai canoni di legge che se violati comportano l’applicazione di sanzioni amministrative, irrogate dalla DTL, mediante procedimento di cui alla L. n. 689/81, e nei casi più gravi l’avvio di indagini penali condotte sotto la direzione del Pubblico Ministero competente. In quest’ultimo caso il personale ispettivo, anche di propria iniziativa, esercita le funzioni di cui all’art. 6 comma 2 del D.lgs. n. 124/04, al fine di assicurare le fonti di prova e raccogliere tutto ciò che possa servire per arrestare la consumazione dei reati. Tra le ipotesi più significative e socialmente pericolose rientrano le condotte con le quali il datore di lavoro, per conseguire i propri profitti e dietro minaccia, sottopone il lavoratore a trattamenti normativi e retributivi inferiori a quelli stabiliti dai contratti di categoria.

Il reato estorsione: requisiti oggettivi e soggettivi

L’estorsione è descritta nell’art. 629 c.p. il quale al comma 1 punisce colui (o coloro) che, mediante “violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno”. La pena prevista è la reclusione da cinque a dieci anni e la multa da €. 1.000,00 a €. 4.000,00. Se concorrono le circostanze aggravanti speciali previste all’art. 628 c.p. per il reato di rapina la pena prevista è la reclusione da sei a venti anni e la multa da €. 5.000,00 a €. 15.000,00.

 

 

Si tratta di reato comune, nel senso che la norma non prescrive che l’autore debba rivestire una determinata qualifica o debba avere un particolare status o ancora debba possedere un requisito necessario per la commissione dell’illecito, il quale pertanto può essere consumato da qualsivoglia soggetto che ponga in essere la condotta descritta dalla norma.

Tale condotta si esprime con atti di violenza e/o minaccia, queste ultime utilizzate singolarmente o in via cumulativa in termini costrittivi della volontà del destinatario e in funzione del conseguimento di un ingiusto profitto con contestuale altrui danno.
 

  1. Il significato dei termini di violenza e minaccia

Il legislatore non definisce la violenza e la minaccia sicché il significato di tali locuzioni, che comunque debbono essere connotate da serietà, è rimesso all’interprete da ricavare in base alle circostanze del caso concreto.

In via generale si può asserire che la “minaccia” postula la prospettazione di un male futuro dipendente dalla volontà dell’autore del fatto e che può anche non essere contra legem, ma in ogni caso preordinato a provocare una condizione di incapacità naturalistica nella vittima del reato. Infatti nell’estorsione non vi è un problema di ingiustizia del male minacciato, ma semmai di utilizzazione della prospettazione del male per ottenere un profitto ingiusto, cagionando un altrui danno.

Il termine “violenza”, invece, richiama ogni attività fisica o psicologica volta ad eliminare la capacità di autodeterminazione. La violenza psicologica pone delicati confini con la minaccia, poiché non è agevole distinguere le due figure, che tendono infatti a coincidere. In ogni caso e premesso che la violenza può essere esercitata sia sulla persona sia sulle cose, si distingue tra violenza assoluta e violenza relativa: la prima sarebbe caratterizzata da compressione totale di ogni margine di volontà, mentre la seconda lascerebbe alla vittima la possibilità di scegliere, con uno spazio residuale di libertà, le alternative prospettate dall’autore della condotta criminosa.
 

  1. Il collegamento tra la condotta coercitiva e l’evento dannoso

La minaccia e/o la violenza devono essere finalizzate a cagionare un “altrui danno” e correlativamente a conseguire da parte dell’autore del fatto un “profitto ingiusto”. Entrambi gli eventi debbono sussistere ed essere il risultato dello stato di timore o di minorata libertà in cui si trova il destinatario della condotta lesiva e che porta quest’ultimo a “fare od omettere qualche cosa”, cioè ad assumere un atteggiamento non rispondente a libera determinazione. Va infatti rimarcato che l’estorsione è un reato plurioffensivo, poiché tutela l’integrità alla libera disposizione dei soggetti anche in funzione della preservazione di interessi patrimoniali di costoro. Sicché sia il termine “danno” che il concetto di “ingiusto profitto” assumono una prospettiva patrimoniale e cioè di arricchimento, atteso che d’altronde il reato è collocato sistematicamente nel codice tra i delitti contro il patrimonio. Una condotta intimidatoria non accompagnata da un danno e/o un ingiusto profitto non integra il reato di estorsione, ma semmai altre fattispecie quale la semplice violenza.
 

  1. L’elemento soggettivo

L’elemento soggettivo necessario ad integrare la figura in esame è esclusivamente il dolo intenzionale o eventuale. Si ha dolo intenzionale in caso di rappresentazione e volizione dell’evento come conseguenza diretta ed immediata della condotta dell’autore. In sostanza il soggetto mira a realizzare con la sua azione od omissione l’evento tipizzato nella norma o la condotta criminosa in essa descritta. Diversamente ricorre il dolo eventuale nel caso in cui l’agente non ha di mira il risultato vietato dalla norma penale. Ma ciò nonostante pone in essere consapevolmente una condotta che con serie probabilità può integrare il reato. In tal caso l’autore non ha come obiettivo la regressione della norma, ma accetta comunque il rischio di cagionare il fatto tipico.
 

L’estorsione nel rapporto di lavoro
 

La fattispecie sopra descritta nei suoi elementi essenziali viene integrata in ambito lavoristico allorquando la fisiologica asimmetria del rapporto contrattuale e sociale intercorrente tra datore di lavoro e dipendente supera la soglia del rispetto dei valori costituzionalmente protetti, quali la libertà e la dignità della persona. Ciò si realizza nel caso in cui, mediante condotte intimidatorie della parte datoriale, la posizione di dipendenza tecnico-funzionale dei dipendenti viene profondamente degenerata se non proprio alterata in un vero e proprio stato di minorazione, che consente all’impresa di realizzare, in danno ai lavoratori e agli enti previdenziali, indebiti vantaggi economici.

L’atto intimidatorio che integra gli estremi della minaccia o della violenza psichica il più delle volte è rappresentato dalla prospettazione della perdita del posto di lavoro e quindi da un male seriamente paventato e che costringe il lavoratore, spaventato dalla perdita del posto di lavoro, ad accettare, obtorto collo, condizioni inferiori rispetto a quelle previste dalla legge o dal contratto.

In tali circostanze ricorrono tutti gli elementi del reato di estorsione:

  1. minaccia e violenza psichica esercitata intenzionalmente dal datore di lavoro sul lavoratore e che ha per oggetto la paventata perdita del posto di lavoro o comunque un male non giustificato;

  2. conseguente costrizione della volontà del lavoratore che viene privato della libera capacità determinativa;

  3. profitto dell’impresa consistente nel risparmio dei costi del lavoro;

  4. danno per il lavoratore al quale vengono applicati trattamenti inferiori a quelli spettanti ex lege e danno altresì nei confronti degli enti previdenziali e assicurativi per il minore gettito contributivo.

Il lavoratore si trova infatti di fronte ad un drammatico bivio: compiere quanto richiestogli dall’agente con violenza o minaccia ovvero subire il male minacciato.
 

L’orientamento della Suprema Corte di Cassazione
 

Tali aspetti sono stati messi in luce dalla Suprema Corte, che in più occasioni ha ritenuto integrata la fattispecie di cui all’art. 629 c.p. nella condotta dal datore di lavoro che “[…] profittando della situazione precaria del mercato del lavoro, costringa i propri lavoratori ad accettare un trattamento retributivo non adeguato al lavoro svolto, dietro larvata minaccia della perdita del posto di lavoro”. Ai fini della realizzazione della condotta materiale sempre la S.C. ritiene che la minaccia non debba necessariamente prefigurare un male irreparabile alle persone o alle cose, essendo invece sufficiente che la stessa, in considerazione delle circostanze concrete in cui la condotta viene posta in essere “[…] sia comunque idonea a far sorgere il timore di subire un concreto pregiudizio”. Né sotto altro aspetto rileva la circostanza che il dipendente abbia accettato di percepire una paga inferiore ai minimi retributivi o non parametrata alle effettive ore lavorative, in quanto “[…] anche uno strumento teoricamente legittimo può essere usato per scopi diversi da quelli per cui è apprestato e può integrare, al di là della mera apparenza, una minaccia […] idonea a condizionare la volontà del soggetto passivo, interessato ad assicurarsi comunque una possibilità di lavoro, altrimenti esclusa per le generali condizioni ambientali o per le specifiche caratteristiche di un particolare settore di impiego della manodopera”. Nell’ipotesi poi che la condotta estorsiva venga realizzata dal datore insieme all’apporto morale e materialmente dal consulente aziendale, anche quest’ultimo soggiacerà alla relativa responsabilità imputata ovviamente a titolo di concorso. Esatta in tal senso la statuizione della S.C. che ha ritenuto responsabili di estorsione il datore di lavoro e il consulente che in concorso tra loro avevano imposto ai dipendenti aziendali di sottoscrivere “[…] i prospetti paga per importi superiori a quelli effettivamente corrisposti, a fronte della minaccia, poi attuata di licenziamento”.
 

Il caso concreto
 

Alla luce delle argomentazioni sopra esposte e degli orientamenti giurisprudenziali è possibile prevedere le conseguenze che scaturiscono dalla condotta di Tizio. Nei fatti quest’ultimo, quale amministratore della società Gamma, ha assunto Caio e Sempronio in nero e ciò al fine di conseguire una riduzione dei costi nella gestione dei relativi rapporti di lavoro. Caio e Sempronio sono stati retribuiti senza registrazione delle somme nel LUL e in misura inferiore a quanto previsto dal contratto di categoria. Tale situazione incresciosa ha portato i dipendenti a chiedere a Tizio la regolarizzazione dei rispettivi rapporti di lavoro, al fine di conseguire corretti trattamenti normativi, retributivi e previdenziali. Tizio ha rifiutato la richiesta, ammonendo al contempo i dipendenti di non ribadire l’istanza, pena l’intimazione del licenziamento.

Ferme ovviamente le conseguenze amministrative per lavoro nero, pare ragionevole sostenere che nella condotta di Tizio siano ravvisabili gli estremi del reato di estorsione ex art. 629 c.p..

Infatti l’intimazione, peraltro neppure mascherata, di licenziamento integra gli estremi della minaccia in quanto prospetta ai dipendenti un male serio e pregiudizievole, dal momento che costringe costoro ad accettare menomate condizioni di lavoro. Non appare seriamente dubitabile infatti che la libera determinazione di Tizio e Caio sia stata oggettivamente lesa dalla condotta di Tizio in favore del quale entrambi i dipendenti, per non perdere l’occupazione, sono tenuti a lavorare senza coperture previdenziali, con retribuzioni corrisposte in nero e in misura non sufficiente e proporzionale all’attività svolta. In tal modo Tizio consegue un ingiusto profitto consistente nella riduzione del costo del lavoro e arreca altresì un danno tanto ai lavoratori quanto all’ente previdenziale, perché entrambi risultano destinatari di emolumenti inferiori a quelli stabiliti dalla legge e dal contratto. In base a tali circostanze appare prevedibile ritenere che gli ispettori, nell’esercizio delle funzioni di polizia giudiziaria, svolgano accertamenti in funzione dell’acquisizione di ogni atto utile per dimostrare le circostanze sopra esposte, informando dell’attività svolta la Procura territorialmente competente.


NOTE

i L’estorsione è aggravata:

  1. se la violenza o minaccia è commessa con armi, o da persona travisata o da più persone riunite;

  2. se la violenza consiste nel porre qualcuno in stato di incapacità di intendere o di volere;

  3. se la violenza o minaccia è posta in essere da persona che fa parte dell’associazione di cui all’art. 416 bis.

ii Aumenti di pena per questo reato sono previsti dall’art. 1, L. 25 marzo 1985, n. 107, sulla repressione dei reati contro le persone internazionalmente protette. Le pene stabilite per i delitti previsti in questo articolo sono aumentate da un terzo alla metà se il fatto è commesso da persona sottoposta con provvedimento definitivo ad una misura di prevenzione personale durante il periodo previsto di applicazione e sino a tre anni dal momento in cui ne è cessata l’esecuzione ai sensi di quanto disposto dall’art. 71, comma 1, D.lgs. 6 settembre 2011, n. 159. Per quanto riguarda il trasferimento fraudolento di valori o di altre utilità al fine di eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione patrimoniale, o per quanto riguarda il possesso ingiustificato di valori oltre i limiti del proprio reddito, vedi l’art. 12-quinquies, D.L. 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, in L. 7 agosto 1992, n. 356, recante modifiche al codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa.

iii La serietà si deduce tenendo conto delle circostanze concrete oggettive e soggettive.

iv Cass. pen. Sez. II, 07/04/2011, n. 15716.

v In tal caso si verifica l’ipotesi in cui vi sono due differenti soggetti danneggiati dal fatto estorsivo. Viene in risalto la possibilità di individuare nelle situazioni riportabili all’estorsione, accanto al soggetto passivo in senso proprio (lavoratore), anche un ulteriore soggetto passivo del danno (ente previdenziale).

vi Cass. pen. Sez. II, 01/12/2011, n. 46678; Cass. pen. Sez. II, 20/12/2011, n. 4290.

vii Cass. pen. Sez. VI, 01/07/2010, n. 32525; analogamente Cass. pen. Sez. II, 14/12/2010, n. 1284.

viii Cass. pen. Sez. II, 05/06/2008, n. 28682.

ix Cass. pen. Sez. II, 21/09/2010, n. 36276.
 

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