L'esdebitazione del fallito è applicabile anche ai debiti Iva, non contrastando con la normativa unionale in materia di sistema comune di imposta sul valore aggiunto.
Lo ha sottolineato la Corte di cassazione nel testo della sentenza n. 18124 del 6 giugno 2022, pronunciata in riferimento alla causa instaurata dal socio accomandatario di una società fallita per opporsi alla cartella di pagamento con cui gli era stato chiesto il versamento di somme a titolo di Iva.
I giudici tributari avevano riconosciuto che tali somme non erano dovute posto che il contribuente, socio della fallita e fallito in proprio, aveva ottenuto dal Tribunale un decreto di esdebitazione, con il quale era stato liberato dal complesso dei debiti residui, compresi alcuni di natura fiscale, nei riguardi dei creditori rimasti insoddisfatti dalla liquidazione fallimentare.
Anche a seguito del decreto di esdebitazione, l'Agenzia delle Entrate aveva ritenuto di essere legittimata a procedere per richiedere i versamenti dei tributi, affermandone l'esclusione dall'alveo del beneficio in questione.
Per questo motivo, l'Amministrazione finanziaria aveva promosso ricorso in sede di legittimità, opponendosi alle conclusioni cui erano giunti i giudici di merito.
Le relative doglianze, tuttavia, sono state disattese dalla Suprema corte, la quale ha ammesso la compatibilità dell'esdebitazione con il diritto dell'Unione europea in materia di debiti Iva, dopo aver richiamato, sul punto, quanto sancito dalla Corte di giustizia Ue nell'ambito della causa C-493/15.
I giudici europei, in tale pronuncia, hanno confermato la piena adattabilità dell'istituto nazionale dell'esdebitazione al diritto unionale.
Per la Corte Ue, in particolare, il quadro sovranazionale non osta alla declaratoria di inesigibilità dei debiti Iva correlata all'applicazione della normativa interna sull'esdebitazione del fallito persona fisica, essendo la concessione del beneficio ex art. 142 Legge Fallimentare sottoposta a condizioni rigorose.
L'esdebitazione - ha continuato la Cassazione - risponde alla rilevante esigenza, avvertita in misura crescente in ambito unionale, di consentire al debitore, svincolato dai debiti pregressi, di ripartire e riproporsi nella società, senza dover scontare "vita natural durante" una insormontabile limitazione nel reinserimento nel circuito sociale ed economico a causa di debiti rimasti insoluti.
Del resto, tale istituto è stato introdotto nel nostro ordinamento proprio sulla scia di altre legislazioni europee e a seguito dell’impulso ricevuto dalla normativa Ue.
In definitiva, il Collegio di legittimità ha rigettato il ricorso del Fisco al luce del seguente principio di diritto: "In tema di fallimento, l'esdebitazione del fallito di cui agli artt. 142 e 143 L. fall. è applicabile anche ai debiti Iva, non contrastando con l'art. 4, par. 3, TUE e con gli artt. 2 e 22 della Direttiva 77/388/CEE del Consiglio, del 17 maggio 1977 (cd. "Sesta Direttiva"), in materia di sistema comune di imposta sul valore aggiunto".
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