Il giudice può ridurre il compenso riconosciuto all’avvocato, senza tuttavia giungere a liquidare somme che risultino del tutto simboliche e non consone al decoro della professione legale.
E’ quanto chiarito dalla Corte di Cassazione, sesta sezione civile, accogliendo il ricorso del difensore di un fallimento, che lamentava il riconoscimento di un compenso pressoché irrisorio (calcolato ai minimi) rispetto a quello richiesto, anche in considerazione delle tre distinte fasi di attività necessarie per lo svolgimento della difesa; fase di studio, introduttiva e decisoria.
La Corte Suprema ha ritenuto fondata la censura ed effettivamente esiguo il compenso corrisposto all'avvocato sulla base del D.m. 140/2012.
E’ pur vero - specificano gli ermellini con ordinanza n. 24492 del 30 novembre 2016 – che il suindicato decreto ammette la decurtazione rispetto ai parametri di legge. Ma è altrettanto vero – proseguono - che il giudice, una volta accertato il valore della controversia oltre lo scaglione massimo e lo svolgimento dell’attività in tre distinte fasi (le cui competenze avrebbe dovuto liquidare in riferimento a ciascuna di esse, in modo da consentire la verifica di correttezza dei parametri impiegati) non avrebbe dovuto riconoscere spettanze tanto modeste.
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