Un collaboratore di un avvocato, non abilitato all’esercizio della professione legale, era stato condannato per falso materiale in scrittura privata ed esercizio abusivo della professione forense, per aver asseritamente falsificato due quietanze di pagamento, apparentemente emesse da una compagnia di assicurazione, fatte poi sottoscrivere a due clienti del suo dominus ai quali si era presentato come legale incaricato della trattazione della pratica con l'assicurazione.
Dopo che anche la Corte d’appello aveva confermato detta statuizione, l’imputato si era rivolto ai giudici di Cassazione, lamentando violazione di legge e vizi motivazionali.
Lo stesso aveva dedotto, tra gli altri motivi, di non aver mai compiuto atti tipici della professione forense, limitandosi a seguire la vicenda per conto del titolare dello studio legale.
L’aver fatto sottoscrivere ai clienti quietanze e attestazioni di pagamenti e l’aver ricevuto acconti in denaro non avrebbe rappresentato – a suo dire – un’attività tipica della professione di avvocato.
Detta doglianza è stata tuttavia ritenuta infondata dalla Corte di cassazione – sentenza n. 7630 del 17 febbraio 2017 – la quale ha ricordato come integri il reato di esercizio abusivo di una professione, il compimento senza titolo di atti che, pur non attribuiti singolarmente in via esclusiva a una determinata professione, siano univocamente individuati come competenza specifica di essa.
Questo quando lo stesso compimento venga realizzato con modalità tali da creare, per continuatività, onerosità e organizzazione ed in assenza di chiare diverse indicazioni, le oggettive apparenze di un’attività professionale svolta da soggetto regolarmente abilitato.
Il ricorso è stato quindi respinto sul punto, con annullamento, tuttavia, della sentenza di condanna limitatamente al fatto imputato al collaboratore ai sensi dell’articolo 485 del Codice penale (falsità in scrittura privata) in quanto non più previsto dalla legge come reato.
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