Con riferimento all’attività professionale dell’avvocato, non si può far discendere la sussistenza dell’autonoma organizzazione per il solo fatto che lo stesso si avvalga della collaborazione di terzi e a questi corrisponda dei compensi.
Va infatti anche considerata la natura di questi compensi, se ossia essi siano relativi ad una collaborazione di carattere continuativo ovvero a prestazioni meramente occasionali, e se siano strettamente afferenti all'esercizio in modo organizzato della propria attività professionale o se siano, e in che misura, riconducibili a prestazioni strettamente connesse all'esercizio della professione forense, come ad esempio in caso di compenso per le domiciliazioni di altri colleghi.
Potrebbe trattarsi, infatti, di componenti che, esulando dall'assetto strettamente organizzativo dell'attività professionale, non appaiono di per sé indicativi di un’autonoma organizzazione che, si rammenta, costituisce il presupposto impositivo dell’imposta IRAP.
Così, riguardo alle prestazioni di terzi collaboratori del professionista, ed ai relativi costi, la verifica del presupposto impositivo dell'autonoma organizzazione richiede un esame del concreto apporto di tali prestazioni all'effettivo svolgimento dell'attività del contribuente, “al fine di verificare se il coinvolgimento di tali professionalità sia o meno estraneo al bagaglio professionale del contribuente”.
Sono questi i principi già affermati dalla giurisprudenza di legittimità, per come ribaditi dalla Corte di cassazione nel testo della sentenza n. 6116 del 1° marzo 2019, con cui è stato accolto il ricorso promosso da un avvocato, contro la decisione di rigetto alla domanda dallo stesso presentata per il rimborso dell'importo versato a titolo di imposta regionale sulle attività produttive (IRAP).
Nella decisione impugnata, la Suprema corte ha ravvisato diverse carenze motivazionali per quanto concerneva l’affermazione della sussistenza di un’autonoma organizzazione in capo al professionista ricorrente.
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