La Corte di Cassazione, sezione lavoro, ha confermato la legittimità del licenziamento per giustificato motivo soggettivo intimato ad una dipendente di banca, cui era stato addebitato di aver utilizzato le credenziali del precedente direttore di filiale per accedere al terminale a lei in uso, oltre ad aver interrogato più volte la banca dati a pagamento per informazioni su soggetti ed imprese, non collegate ad esigenze di servizio.
Nel respingere le censure della ricorrente, la Suprema Corte ha chiarito che la giusta causa di licenziamento, così come il giustificato motivo, costituiscono nozioni che la legge configura – allo scopo di adeguare la normativa alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo – con disposizioni di contenuto limitato, delineanti un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che le stesse disposizioni tacitamente richiamano.
Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura di norma giuridica e la loro disapplicazione è quindi deducibile in sede di legittimità come violazione di legge. L’accertamento, dunque, della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, nonché della loro concreta attitudine a costituire giusta causa o giustificato motivo di licenziamento, è quindi sindacabile in Cassazione, a condizione che la contestazione non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di incoerenza rispetto agli standards esistenti nella realtà sociale.
Ciò detto, nel caso de quo – proseguono gli ermellini – non può ritenersi che la Corte territoriale, nella pronuncia impugnata, abbia fatto malgoverno di detti standards valutativi esistenti nella realtà sociale in riferimento a situazioni analoghe, posto che, in virtù di costante giurisprudenza di legittimità, per giustificare un licenziamento disciplinare, i fatti addebitati devono rivestire il carattere di grave violazione degli obblighi del rapporto di lavoro, tale da lederne irrimediabilmente l’elemento fiduciario.
La relativa valutazione deve essere operata con riferimento agli aspetti concreti afferenti la natura e la qualità del singolo rapporto, la posizione delle parti, il grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, il nocumento eventualmente arrecato, la portata soggettiva dei fatti stessi, la circostanze del loro verificarsi, i motivi e l’intensità dell’elemento intenzionale o colposo.
E proprio a tale insegnamento- conclude la Corte con sentenza n. 12337 del 15 giugno 2016 - si è correttamente attenuta la Corte distrettuale, considerando l’utilizzazione della password e gli accessi alla banca dati non attinenti all'attività demandata, non tanto in sé, ma nell'ambito della delicatezza della funzione attribuita alla dipendente e della possibilità di accesso a dati sensibili di terzi, che avrebbe imposto un rigoroso rispetto delle regole e delle imposizioni impartite, la cui violazione è risultata pertanto idonea a determinare il venire meno dell’elemento fiduciario (con conseguente licenziamento della dipendente medesima).
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