Un lavoratore, a seguito della trasformazione del rapporto di lavoro full-time in rapporto di lavoro part- time verticale - trasformazione comportante una prestazione lavorativa articolata su quattro giorni a settimana in luogo di sei – si è visto riproporzionare dalla società datrice di lavoro i tre giorni di permesso mensile di cui all'art. 33, comma 3, Legge 5 febbraio 1992 n. 104, in due giorni al mese.
Ritenendo tale riproporzionamento illegittimo, il lavoratore ha impugnato la decisione ed ha ottenuto il riconoscimento del diritto ai tre giorni di permesso mensile nei tre i gradi di giudizio.
In verità, sia per i dipendenti pubblici che per quelli privati è previsto che, in caso di part-time verticale, i permessi mensili in questione siano riproporzionati, ma per la Suprema Corte di Cassazione è vietata la discriminazione del lavoratore a tempo parziale e, con particolare riferimento alla norma in vigore prima del D.Lgs. n. 81/2015, il Legislatore aveva distinto fra:
La disciplina di attuazione della Direttiva 97/81/CE, non si configura quale ostacolo all’esclusione dal riproporzionamento del part time verticale in ordine ai permessi mensili di cui all'art. 33, comma 3, Legge 5 febbraio 1992 n. 104 ma, per gli Ermellini - sentenza n. 22925 del 29 settembre 2017 - necessita una distribuzione in misura paritaria, fra datore di lavoro e lavoratore, degli oneri e dei sacrifici connessi all'adozione del rapporto di lavoro part-time e, nello specifico, del rapporto part-time verticale.
In definitiva, posto che il permesso mensile retribuito per assistere i disabili in condizione di gravità costituisce espressione dello Stato sociale che eroga una provvidenza in forma indiretta, tramite facilitazioni e incentivi ai congiunti che si fanno carico dell'assistenza di un parente disabile grave, da quanto sopra consegue che, qualora la prestazione di lavoro part-time sia articolata sulla base di un orario settimanale che comporti una prestazione per un numero di giornate superiore al 50% di quello ordinario, stante la pregnanza degli interessi coinvolti e l'esigenza di effettività di tutela del disabile, permane il diritto del lavoratore all’integrale fruizione dei permessi in questione.
Conseguentemente, il datore di lavoro è stato condannato al risarcimento del danno non patrimoniale, essendo innegabile ii pregiudizio subìto dal dipendente che non aveva potuto accudire personalmente la figlia minore disabile, privandola di un aspetto relativo allo svolgimento della propria personalità in ambito familiare e sociale.
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