La facoltà che ha l’avvocato di astenersi dal deporre non costituisce un'eccezione alla regola generale dell'obbligo di rendere testimonianza, ma è espressione del diverso principio di tutela del segreto professionale.
E’ in questo senso che devono essere interpretati gli articoli 200 e 195, comma 6 del Codice di procedura penale, attraverso cui il legislatore ha contemperato gli opposti interessi dell'accertamento dei reati e dell'effettività dell'esercizio della difesa.
E che il legislatore abbia inteso trovare un punto di bilanciamento dei menzionati interessi lo si desume anche dal fatto che l'articolo 200 è stato configurato come divieto di deposizione coattiva e non già come divieto assoluto di esaminare il soggetto titolare dell'obbligo di segretezza, demandando, poi, all'ordinamento forense il compito di disciplinare l'ambito di discrezionalità rimesso all'avvocato nell'astenersi o meno dal deporre.
Sono questi i principi ribaditi dalla Corte di cassazione, con sentenza n. 29495 del 27 giugno 2018, in tema di segreto professionale che può essere opposto dall’avvocato, una volta che sia chiamato a deporre.
Nel caso specificamente esaminato dalla Corte di legittimità, è stato ritenuto che i giudici di merito non avessero fatto buon governo degli assunti richiamati, in quanto il Tribunale, nel pronunciarsi sulla misura cautelare disposta a carico di un indagato, aveva sostanzialmente travisato i limiti oggettivi della tutela del segreto professionale, ricostruendo il sistema delle fonti di riferimento in maniera errata.
Tra gli altri motivi, è stata accolta, dalla Cassazione, l'eccezione di inutilizzabilità delle dichiarazioni de relato rese dalla persona offesa in merito a quanto appreso dal proprio difensore.
Dagli atti risultava che l'avvocato, appunto difensore della persona offesa, fosse stato sentito, per due volte, a sommarie informazioni, al fine di confermare quanto riferito del suo assistito e cioè che il difensore dell'indagato lo aveva contattato formulando un'offerta risarcitoria a nome del suo cliente.
In entrambe le occasioni, il legale aveva opposto al pubblico ministero il segreto professionale, rifiutandosi di rispondere.
Conseguentemente, la difesa dell’indagato aveva lamentato che nemmeno le dichiarazioni della persona offesa, relative a tale episodio, potessero essere utilizzate al fine di integrare il quadro indiziario a carico dell'accusato, stante il divieto di testimonianza indiretta posto dall'articolo 195, comma 6, C.p.p.
Motivo, questo, condiviso dalla Corte suprema, la quale ha evidenziato come il Tribunale non aveva considerato che l'avvocato aveva effettivamente opposto il segreto professionale, astenendosi dal rispondere alle domande del pm, circostanza, questa, che integrava il presupposto per l'operatività del divieto di cui all'articolo 195 richiamato e della conseguente inutilizzabilità delle dichiarazioni assunte in violazione del medesimo.
Infatti, solo qualora il legale fosse stato obbligato a deporre o avesse deciso autonomamente di farlo o altrimenti avesse divulgato quanto appreso nei rapporti con altro difensore, la parte offesa avrebbe potuto essere legittimamente sentita in merito a quanto riferitogli dal medesimo legale, ma – conclude la Corte – “certamente non prima”.
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