Oggetto della questione – a seguito della nuova disciplina con decreto 231/2001 – sono le condizioni per l’applicazione della sanzione d’interdizione, per un anno, dall’esercizio dell’attività e del contestuale commissariamento verso una società cooperativa a responsabilità limitata e una società per azioni, entrambe accusate di corruzione. I giudici della Cassazione se ne avvalgono per precisare la nozione di profitto di rilevante entità tratto dal reato, fornendo un’interpretazione estensiva sulle condizioni che determinano l’applicazione delle misure interdittive (sentenza 32627 del 2 ottobre 2006).
Il profitto inteso in senso stretto, “come immediata conseguenza economica dell’azione criminosa, che può corrispondere all’utile netto ricavato” (articolo 13 del dl 231). Il richiamo ad esso rappresenta l’attuazione del criterio di delega, cui va riconosciuta l’originaria funzione di selezionare i casi più gravi da punire con le sanzioni più afflittive per l’ente incriminato. Quando è questa la funzione attribuita alla condizione applicativa di cui all’articolo 13 del decreto ora citato, deve considerarsi estranea ai detti fini la nozione di profitto intesa come utile netto. Mentre si deve optare per un concetto più dinamico del termine profitto, che ricomprenda vantaggi economici anche non immediati, comunque conseguiti attraverso l’illecito.
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