Le decisioni del Consiglio Nazionale forense in materia disciplinare sono impugnabili dinanzi alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, ai sensi dell’art. 56 R.d.l. 1578/1933, soltanto per incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge. Ne deriva che l’accertamento del fatto, l’apprezzamento della sua rilevanza rispetto alle imputazioni, la scelta della sanzione opportuna ed, in generale, la valutazione delle risultanze processuali, non possono essere oggetto di controllo di legittimità, salvo che si traducano in un palese sviamento di potere, ossia nell’uso del potere disciplinare per un fine diverso da quello per il quale è conferito.
E’ quanto enunciato dalla Corte di Cassazione, Sezioni Unite civili, respingendo il ricorso di un avvocato, sanzionato dal Coa – con condanna confermata dal Consiglio nazionale forense – alla sospensione dall’esercizio della professione, per aver omesso di versare al proprio assistito, che lo aveva citato in un giudizio di responsabilità professionale, la somma corrispostagli dall’assicurazione chiamata in garanzia.
Non è consentito alle Sezioni Unite – affermano in proposito gli Ermellini – sindacare, sul piano del merito, le valutazioni del giudice disciplinare, dovendo la Corte limitarsi ad esprimere un giudizio sulla congruità, sull’adeguatezza, sull’assenza di vizi logici della motivazione che sorregge la decisione finale. Per cui nel caso di specie, si legge nella sentenza n. 19163 del 2 agosto 2017, non può procedersi ad un diverso accertamento in fatto – come invece sollecitato dal ricorrente – rispetto a quello operato dal Cnf, oltretutto in maniera del tutto coerente ed esente dai lamentati vizi. In detta sede, difatti, si sono correttamente esaminati i fatti denunciati, ravvisandone la gravità e ritenendo conseguentemente la condotta ascrivibile tout court all’illecito disciplinare poi contestato.
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