Con sentenza n. 22150 depositata il 29 ottobre 2015, la Corte di Cassazione, sezione lavoro, ha respinto il ricorso di una s.p.a. datrice di lavoro, avverso la pronuncia con cui la Corte territoriale aveva ritenuto inappropriata poichè troppo grave una sanzione disciplinare irrogata ad un proprio dipendente (nella specie, sospensione dal lavoro per quattro giorni), sebbene i fatti di cui all'illecito contestato sussistessero. Nello stesso tempo, i giudici di merito avevano parimenti escluso di poter sostituire detta sanzione con altra meno severa, non potendo – a loro dire - appropriarsi di un potere riservato all'imprenditore.
Dello stesso avviso la Cassazione, secondo cui – nel respingere le censure del datore, il quale aveva chiesto in subordine la suddetta sostituzione ove la pena fosse risultata eccessiva – il potere di infliggere sanzioni disciplinari proporzionate alla gravità dell'illecito accertato, non può spettare al giudice, neppure quanto alla riduzione della gravità.
Invero, la graduazione della pena in base alla gravità dell'illecito, è espressione di una discrezionalità che rientra nel più ampio potere organizzativo, quale aspetto del diritto di iniziativa economica costituzionalmente riconosciuto all'imprenditore.
Ne deriva che i criteri di scelta da esso adottati nell'esercizio del potere disciplinare, non sono sindacabili nel merito dal giudice, che deve semmai limitarsi a constatare – oltre all'esistenza in punto di fatto dell'addebito – il rispetto delle disposizioni legislative e contrattuali in materia (in particolare, il principio di cui all'art. 2106 c.c.). La loro eventuale violazione comporta radicalmente la illegittimità della sanzione disciplinare, senza che il giudice possa sostituirsi all'imprenditore nell'applicare altra meno grave sanzione ritenuta proporzionata all'addebito accertato, fatto salvo il caso in cui il datore abbia superato il massimo edittale e la riduzione, perciò, consista solamente nel ricondurre la pena entro tale limite.
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