Rifugiati. No a respingimenti verso Stato - approdo non sicuro

Pubblicato il 07 dicembre 2019

Qualora le autorità di uno Stato intercettino in alto mare dei migranti, sorge in capo alle stesse l’obbligo di esaminare la situazione personale di ciascuno e di non attuare il respingimento dei rifugiati verso un territorio in cui la loro vita o la loro libertà sarebbero minacciate e in cui essi rischierebbero la persecuzione.

E’ quanto precisato dal Tribunale di Roma nel testo della sentenza n. 22917 del 28 novembre 2019 con cui, giudicando illegittimo il respingimento collettivo di migranti eritrei operato, nel 2009, dall’Italia verso la Libia, ha riconosciuto il diritto al risarcimento dei migranti respinti, quantificato in 15mila euro per ciascuno di essi.

Respingimento collettivo da Italia a Libia illegittimo

Secondo i giudici capitolini, le autorità italiane, nel caso in esame, erano nelle condizioni di sapere che la Libia, Stato che non aveva ratificato la Convenzione di Ginevra e nel quale non era previsto un sistema nazionale di asilo, non potesse considerarsi, all’epoca dei fatti di causa, approdo sicuro, con concreto rischio che i migranti venissero arrestati, sottoposti a violenze, nonché respinti verso l’Eritrea, Paese, quest’ultimo, rispetto al quale, peraltro, erano stati diffusi diversi rapporti nei quali venivano denunciate le violazioni dei diritti fondamentali ivi perpetrati.

Anche considerando il richiamato accordo internazionale Italia-Libia del 2008, il nostro Paese – secondo il Tribunale – non poteva ritenersi esente da responsabilità invocando in quanto gli eventuali obblighi da esso derivati erano da ritenere recessivi rispetto alle fonti costituzionali e sovranazionali, primi tra tutte l’articolo 10 della Costituzione e gli artt. 18 e 19 della Carta di Nizza.

Migranti risarciti

La condotta delle autorità italiane, in definitiva, è stata ritenuta contrastare con gli obblighi di diritto interno (di rango costituzionale) e internazionale, gravanti sull’Italia, con conseguente illegittimità della condotta contestata. Da qui la condanna al risarcimento, nei termini sopra indicati.

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